Proteggersi
il destino avrebbe voluto che tutte le donne della sua vita, a cominciare per l’appunto da sua madre, e da sua sorella Irene, per proseguire via via con amiche, fidanzate, colleghe, mogli, figlie, tutte, ma proprio tutte, sarebbero sempre state governate da disparate tipologie di terapia analitica, dandogli conferma sulla sua pelle di figlio, fratello, amico, fidanzato, collega, marito e padre, di una sua primitiva intuizione: la “psicoanalisi passiva” era molto dannosa. Nessuna di loro, però, se ne preoccupava, nemmeno quando lui ebbe cominciato a lamentarsene. Danni, gli veniva detto, ne crea qualsiasi famiglia, e qualsiasi tipo di rapporto, in chiunque; considerare la psicoanalisi più responsabile della – poniamo – passione per gli scacchi, era un pregiudizio. Forse avevano addirittura ragione, ma il prezzo che Marco Carrera era destinato a pagare per quei danni lo avrebbe sempre fatto sentire in diritto di pensarla in quel modo: la psicoanalisi era come il fumo, non bastava non praticarla, bisognava anche proteggersi da chi la praticava. Solo che l’unica maniera conosciuta per proteggersi dalla psicoanalisi altrui era andare a propria volta in analisi, e lui su questo non intendeva mollare.
[Sandro Veronesi, Il colibrì, Milano, La nave di Teseo 2019, pp. 46-47]