sabato 14 Agosto 2021
La speranza non è che un ciarlatano che non smette di imbrogliarci; e, per me, io ho cominciato a star bene solo quando l’ho persa. Metterei volentieri sulla porta del paradiso il verso che Dante ha messo su quella dell’inferno: Lasciate ogni speranza ecc.
Samuel Beckett
[Lunedì 16 agosto, alle 20, riunione di redazione del numero 8 di Qualcosa. Tema: la disperazione. Chi vuole partecipare mandi, entro domenica 15, una mail a tosorelaentertainment@gmail.com e riceverà l’invito su zoom]
lunedì 12 Aprile 2021
«La speranza non è che un ciarlatano che non smette di imbrogliarci e, per me, io ho cominciato a star bene solo quando l’ho persa. Metterei volentieri sulla porta del paradiso il verso che Dante ha messo su quella dell’inferno: Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate».
[Samuel Beckett, citato qui clic]
martedì 1 Settembre 2015
All’inizio di marzo mi trovavo a Parigi. Beckett mi cercò in albergo. Gli chiesi come andava e lui rispose sconsolatamente: “Sto in una casa di riposo. E non è la prima”. Gli domandai se potevo passare da lui. Rispose: “Non mi sento in vena di parlare. Ma mi farebbe piacere vederti”. Suggerì venerdì alle 5 di pomeriggio, poi mi diede l’indirizzo. Più tardi, quello stesso giorno richiamò e disse che aveva confuso gli appuntamenti: non potevamo fare sabato, invece? Sì, naturalmente.
L’insegna diceva “Tiers Temps Orléans. Retraite”. Era un edificio assolutamente convenzionale a fianco di un piccolo ospedale, in una tranquilla via residenziale. Attraversai un salone dove cinque anziani guardavano in silenzio la televisione. Trovata un’infermiera, disse che ero venuto a trovare il signor Beckett. Mi condusse attraverso un giardino alla sua stanza, di fronte a un patio. Essendo marzo, il paesaggio era desolato.
La stanza era piccola e disadorna, nuda quasi quanto una cella. Sui muri non c’erano quadri, nessuna ovvia amenità, solo uno stretto letto rifatto con precisione, una scrivania e un tavolo con sopra alcuni libri, tra i quali un dizionario e la copia scolastica della Divina Commedia con annotazioni di suo pugno: l’ultimo anno della sua vita Beckett rileggeva Dante in italiano. Sul pavimento c’era un televisore portatile, sul quale continuava a seguire tennis e calcio. Sul tavolino accanto al letto stavano un telefono e un’agenda. Di fronte, un armadio e quello che pareva un piccolo frigorifero. Le scarpe erano allineate in un angolo. Avrebbe potuto essere la scena di una pièce del tardo Beckett.
[Mel Gussow, Conversazioni con (e su) Beckett, traduzione di Manlio Benigni, Milano, Ubublibri 1998, p. 58]
mercoledì 3 Settembre 2014
Allora non vuole più che venga? aveva detto. È incredibile come la gente ripeta quello che gli hai appena detto, come se fosse troppo faticoso credere alle proprie orecchie. Le avevo detto di venire di tanto in tanto. Conoscevo male le donne, all’epoca. Le conosco ancora male, del resto. Gli uomini, anche. Gli animali, anche. Quello che conosco meno male, sono i miei dolori.
[Samuel Beckett, Premier amour, Paris, Les éditions de minuit 1970, pp. 21-22]
martedì 2 Settembre 2014
Ma, per passare adesso a un argomento meno triste, alla morte di mio padre ho dovuto lasciare la casa.
[Samuel Beckett, Premier amour, Paris, Les éditions de minuit 1970, p. 12]
sabato 30 Agosto 2014
Perché la data della mia nascita, dico bene, della mia nascita, non l’ho mai dimenticata, non son mai stato obbligato a trascriverla, resta impressa nella mia memoria, l’anno, per lo meno, in cifre che la vita farà fatica a cancellare. Il giorno anche, quando faccio uno sforzo lo ritrovo, e lo celebro spesso, a modo mio, non dirò tutte le volte che torna, no, perché torna troppo spesso, ma spesso.
[Samuel Beckett, Premier amour, Paris, Les éditions de minuit 1970, p. 8]
venerdì 18 Luglio 2014
Mercoledì, a Fahrenheit, Loredana Lipperini mi ha chiesto come si intitolava in dialetto reggiano il racconto di Beckett tradotto da Daniele Benati in dialetto reggiano e che Daniele stava per leggere a Questa è l’acqua, il festival sonoro della letteratura; quel racconto lì in inglese si intitola From an Abandoned Work, e in italiano è stato tradotto Da un’opera abbandonata, e come si intitolava in dialetto, io, siccome non lo sapevo, ho detto che non lo sapevo, poi ieri ho sentito Daniele che lo diceva e il titolo in dialetto è Da un lavor pianté le.
venerdì 18 Luglio 2014
Ho letto il romanzo di Davide Longo Il caso Bramard (Feltrinelli) dopo aver sentito un’intervista per radio in cui Longo diceva che i romanzi son come le pizze, che fare la pizza non è una cosa difficile, la cosa difficile è farla buona, usare quella mozzarella lì buona, quel pomodoro lì buono, che è una teoria interessante, secondo me. E a me sembra di aver ritrovato questa cura nella scelta della mozzarella e del pomodoro nei paragoni costruiti da Longo. Per esempio, a pagina 34: «Percorsero il corridoio, l’uomo basculando sul suo baricentro basso, le gambe tozze e corte, sgraziato come certe macchine costruite per la fatica»; oppure, a pagina 35: «Tra loro un insegnante camminava a capo chino, solo come un prete su un carro di Carnevale»; a pagina 51: «Si fermò ad aspettare che il brutto passasse, solo come un cavallo sotto il temporale»; «I due, forse fratelli, si aggiravano con aria svogliata tra le auto, tutte Bmw, Audi e Mercedes di grossa cilindrata, aprendo il cofano o chinandosi a controllare i cerchioni, come si verificherebbero i genitali di un toro a una fiera paesana» (p. 56); «Corso abbassò gli occhi sui sandali. Il cuoio sopra le dita era sbiadito, come se li avesse indossati qualcuno che attendeva da anni sul bagnasciuga, con le onde che gli salano la punta dei piedi» (p. 72); «Un silenzio che l’aveva spossato, come stancano gli addii di cose taciute» (p. 91); «La vecchia Faema sfiatò, come un bovino costretto ad alzarsi, e il caffè cominciò a colare rugginoso nella tazza» (p. 101); «I polsi le uscivano dalle maniche del giubbotto come snodi di una vecchia lampada da tecnigrafo» (p. 111); «Aveva sentito l’odore della sua pelle appena entrata nella sala interrogatori. Un odore complesso e riposante, come le cose così vecchie che non vale la pena chiedersi quando sono nate» (p. 125); «Madame Gina prese una sigaretta dalla scatola d’alabastro che stava sul tavolino come un animaletto desideroso di essere toccato solo da lei» (p. 140); «Rise Gina, poi sollevò la mano e lo salutò come si salutano i bambini sulle giostre e una parte della giovinezza» (p. 145); «”Torni a trovarci” disse prima di avviarsi verso il gabbiotto, con l’andatura di chi aspetta un sassata nella schiena da un momento all’altro» (p. 174); «Alviano fece un passo all’indietro, come un grosso erbivoro che vuole sfilarsi da una posizione di svantaggio» (p. 191); «Il suo petto si alzava e abbassava con la fragilità di una crosta di pane» (p. 218). Ecco. Io, probabilmente ho un gusto primitivo, questi pomodori e queste mozzarelle mi sembrano, devo dire, un po’ troppo ricercati. I primi scrittori che mi sono piaciuti, tra quelli che ho conosciuto, eran scrittori che facevano a Modena una rivista che si chiamava Il semplice, e lì a Modena, dove la facevano, loro chiedevano a quelli che volevano pubblicare sul Semplice di leggere i loro racconti, ad alta voce, davanti alla redazione, e poi i redattori, che erano, tra gli altri, Gianni Celati, Ermanno Cavazzoni, Daniele Benati e Ugo Cornia, dicevano cosa ne pensavano, e avevano una specie di gergo che non è che si capiva subito, se il giudizio era positivo o negativo; per esempio se di una cosa dicevano che era «scritta bene», voleva dire che non gli era piaciuta, che la trovavano scritta bene e basta, senza altre qualità, invece se una cosa era «strampalata» voleva dire che gli era piaciuta. Provo a fare un esempio. Uno di questi scrittori, Daniele Benati, qualche anno fa ha provato a tradurre un racconto di Beckett in dialetto reggiano. Il racconto di Beckett cominciava con l’espressione: «I was feeling awful», che Daniele ha tradotto così: «A stèv mäl» («Stavo male»). C’è un traduttore italiano (Valerio Fantinel), che ha tradotto quel racconto in italiano prima che Daniele lo traducesse in reggiano e quell’inizio lì, «I was feeling awful», l’ha tradotto così: «Avevo una tarantola di inquietudini in petto». Quando Daniele mi ha raccontato questa cosa io mi son chiesto cos’aveva pensato Fantinel; “Beckett ha preso il Nobel, – deve aver pensato, – non può mica scrivere «Stavo male». «Stavo male» son capaci tutti, di scriverlo, Beckett gli han dato anche il Nobel, non può scrivere una cosa del genere. Ha preso anche il Nobel”. Come se i libri belli dovessero essere fatti di materiale pregiato, mozzarelle selezionate, pomodori biologici; invece Beckett, secondo me, che mette in scena dei barboni, della gente che dorme sulle panchine e che si nutre con la spazzatura, uno dei motivi per cui è bravo, forse, è il fatto che riesce a mettere in bocca ai quei personaggi lì una lingua coerente con la loro fisionomia. Beckett, mi sembra, non ha nessun desiderio di fare bella figura, non vuole un bel voto, non vuole un giudizio positivo su tripadvisor, i suoi personaggi quando stan male stan male, e per me, come lettore, è un sollievo, trovare ogni tanto delle cose che non sono oggetti di design, son delle cose, chissà se si capisce.
[Uscito ieri su Libero]
venerdì 30 Maggio 2014
NASTRO c’è naturalmente la casa sul canale dove la mamma sta morendo, ad autunno avanzato, dopo la sua lunga vedovezza (Krapp sussulta) e la… (Krapp stacca il registratore, fa retrocedere il nastro, avvicina l’orecchio, lo rimette in modo)… morendo, dopo la sua lunga vedovezza e la…
Krapp ferma il registratore, alza la testa, guarda nel vuoto davanti a sé. Le sue labbra pronunciano silenziosamente le sillabe di «vedovezza». Si alza, sparisce al fondo della scena, nel buio, ritorna con un enorme dizionario, lo posa sul tavolo, si siede e cerca la parola.
KRAPP (leggendo nel dizionario) Raro… per vedovanza… Stato… o condizione… di chi è…. o rimane… vedovo o vedova. (Alza lo sguardo. Perplesso) È… o rimane?
[Samuel Beckett, L’ultimo nastro di Krapp, in Teatro, a cura di Paolo Bertinetti, Torino, Einaudi 2002, p. 202]
venerdì 20 Settembre 2013
Vivere è una malattia dalla quale il sonno ci dà sollievo ogni sedici ore. È un palliativo; il rimedio è la morte.
[Samuel Beckett, Pseudo-Chamfort, in Le poesie, Torino, Einaudi 1999, p. 134]