Una visita inopportuna
Venne da me l’Epilogo, e posò
il nero cappello sul mio tavolo.
Finse di chiamarsi Rustavièli,
ma aveva i piedini di vetro,
un fratello del nonostante di ieri.
Ah, il suo guarnello di fumo, i suoi ceri,
il suo fare esequiale, con piccole arcadie, la sagrestia degli inchini, la faccia batràcica.
Signor Epilogo, gli dissi con circospezione:
non c’è bisogno di voi, non occorre sipario.
Non alzate la perfida tabella: «Fine»,
non subornate i poeti, perché si tacciano.
Non tutto si spegne nell’ultima pagina
al vostro segnale di fiacca e di morte. Mettete
spalliere di spadaccini all’intorno
e folle di volpi e pedanti e gendarmi. A che serve.
I versi continuano oltre la fine. Si sciolgono
in nuvole, in musiche, in lacrime, in sangue.
[Angelo Maria Ripellino, La fortezza d’Alvernia, Milano, Rizzoli 1967, p. 87]