Degli autobus che mi commuovono
1. Anche da lontano
Una mattina di febbraio del 2017, alle 7, quando sono montato sull’autobus, a Casalecchio Villa Chiara, i pochi posti liberi non ci si poteva sedere perché eran bagnati, ci pioveva dentro, e a me era venuto in mente il filobus numero 10, a San Pietroburgo, che avevo preso una mattina, verso le 8, nel ’95, sulla prospettiva Grande dell’Isola Vasilevskij, che pioveva, e ero entrato sul filobus, era pieno dappertutto tranne un tondo di un metro di diametro che era vuoto perché in alto, sul soffitto, c’era un buco. Allora cosa avevano fatto, i russi? Avevano fatto buco anche sotto, sul pavimento. E l’acqua passava, e il filobus andava. E questa, per me, era la Russia, e mi sembrava bellissima, e l’autobus numero 20, una mattina di febbraio del 2017, da Casalecchio Villa Chiara a Bologna Funivia, uguale, più o meno, con la gente che avevan delle facce così tristi che sembrava dicessero, tutti, «Anche da lontano, si vede, anche da lontano, si vede, anche da lontano, si vede, che non mi vuoi più bene».
2. Il cavallo
Quando ero piccolo, che avevo ventisei anni, noi, in famiglia, io ho due fratelli, e un babbo e una mamma, e noi cinque, quando avevo ventisei anni, nell’ottantanove, avevam cinque macchine, intese come automobili, e io, all’epoca, usare la macchina mi sembrava una cosa normale come nell’ottocento dev’essere stato normale usare il cavallo, io ci andavo anche al bar, in macchina, nell’ottantanove.
Non avevo ancora letto un saggio di Brodskij che diceva che, i monumenti, c’erano molti monumenti di gente a cavallo, pochissimi monumenti di gente in macchina, Brodskij abitava in un posto che io, allora, nell’ottantanove non c’ero mai stato ci sarei andato per la prima volta due anni dopo, nel novantuno, e la cosa avrebbe cambiato completamente la relazione mia con le macchine, con treni e con gli autobus, non con i cavalli che io, i cavalli, si potrebbe dire che non so neanche dove stanno di casa, i cavalli.
3. Consumata
Io adesso la macchina non ce l’ho più, dal novantanove, e prendo, più o meno, a farci il conto, duecentocinquanta treni all’anno, e non saprei dir quanti autobus, e devo dire che prendere gli autobus, non è bellissimo, prendere gli autobus, la qualità della vita, su un autobus, lo spazio respirabile, se così si può dire, non è una gran qualità e non è un grande spazio, e si vedon delle scene imbarazzanti, sugli autobus, una signora, a Milano, una volta, su un tram, «Lasciamo che si siedano i giovani», diceva, con una cattiveria che se avesse potuto li avrebbe fulminati, quei giovani lì che si eran seduti, non è bellissimo ma a me piace molto, prendere gli autobus, non so perché. Una volta Giorgio Manganelli, in un saggio che si intitola Piacenza non è Singapore, e che comincia dicendo: «D’accordo, Piacenza non è Singapore; le differenze sono molte e non trascurabili», in quel saggio lì Manganelli scrive che lui ha conosciuto veramente Piacenza quando ci è andato a mangiare, che una città in cui non hai mangiato è una città «rata e non consumata»; ecco, io, devo dire, quando vado in un posto, se riesco, faccio un giro su un autobus, perché sugli autobus, mi sembra, è come se si sentisse l’odore, di quella città, è come se la si consumasse, se così si può dire.
4. Un autobus
Io, anche se dal 1999 abito a Bologna, sono di Parma, e quando ero piccolo, a Parma, che avevo quattordici anni, abitavo in periferia, e andavo a scuola con l’autobus numero otto, e l’autobus numero otto, nella mia giovinezza, che è stato un periodo un po’ turbolento, per me, e dove io non mi trovavo bene quasi da nessuna parte, be’, l’autobus numero otto era uno dei posti dove mi trovavo meglio e una volta, qualche anno fa, nel 2012, ero tornato a Parma per vedere uno spettacolo teatrale, a un certo punto, su un ponte, mi sono visto venire incontro l’autobus numero otto e mi sono accorto che aveva lo stesso colore di quando lo prendevo io che ero piccolo e mi sono commosso e subito dopo mi sono chiesto «Ma cosa fai, ti commuovi per un autobus?».
E poi mi sono risposto «Sì, mi commuovo per un autobus».
5. Gli autobus, i treni, e i pensieri
Poi, il giorno dopo, al mattino, dopo che ero andato a vedere lo spettacolo teatrale, e che mi ero fermato a dormire da mio fratello, e che avevo preso un autobus ero tornato in stazione per prendere il mio treno che mi avrebbe riportato a Bologna, io mi ricordo che mi era successa una cosa che aveva risolto un problema che avevo fin da quando ero piccolo, che io fin da quando ero piccolo ero un po’ tormentato da una questione che, c’entra forse un po’ anche la mia educazione cattolica, io mi chiedevo continuamente se io ero buono o non ero buono e lì, in quel giorno del 2012, nella stazione di Parma, intanto che tiravo fuori dal portafoglio il mio biglietto del treno per convalidarlo, io mi ricordo che avevo pensato, d’un tratto, che io non ero buono perché ero buono, ero buono se, ero buono.
6. Quel che facevo
E questa cosa, mi viene in mente adesso, questo pensiero forse stupido ma per me rivoluzionario, che non era importante quello che ero, ma quel che facevo, che tutto quel che facevo tutti i giorni era quello, che determinava quello che ero, e che, se era così, diventava importante tutto quel che facevo tutti i giorni fin dal mattino presto quando caricavo la caffettiera e la stringevo, con le mie mani, quel pensiero lì, secondo me, a me è venuto in mente quel giorno perché ero appena sceso da un autobus e stavo per montare su un treno che io credo che, il movimento in generale, e in particolare il movimento dei mezzi pubblici, metta in moto i pensieri e questa cosa non vale solo con i mezzi pubblici emiliani che son mezzi pubblici, per me, famigliari, vale anche per i mezzi pubblici russi, per esempio, che son mezzi pubblici esotici.
7. Gli zar
Una volta, qualche anno fa, sarà stato il duemilaedieci, su un treno interregionale da Bologna a Parma che era partito da Bologna alle 18 e 24, in orario da pendolari, io ero in piedi nel corridoio, era settembre, la gente che va a lavorare era appena tornata dalle vacanze e c’era un signore, seduto, che parlava con il suo dirimpettaio e gli diceva che in vacanza era stato in Russia, a Mosca, e che era stato in metropolitana e che era bellissima, la metropolitana di Mosca, e poi si vede aveva visto la faccia del suo dirimpettaio che era un po’ stupito e aveva aggiunto, in fretta, «Ma l’han fatta gli zar, eh».
E a me era venuta voglia di dirgli che la metropolitana, a Mosca, si chiama Lenin, e la prima linea l’hanno aperta nel 1935 e non l’han fatta gli zar, l’han fatta i comunisti e che, anche se adesso andava di moda parlarne male, dell’Unione Sovietica io l’avevo vista che era ancora Unione Sovietica era un posto bellissimo, secondo me, avrei voluto dirgli, a quel signore che era stato in vacanza in Russia, poi non gliel’avevo detto.
8. Romanzo teatrale
E se penso alla metropolitana Lenin, mi viene in mente un momento preciso del’91 quando l’ho vista davvero.
Era la prima volta che ero in Russia, eran due anni che studiavo russo, e su un vagone della metropolitana Lenin stavo leggendo il primo libro che leggevo tutto in russo, e ero così contento che finalmente, leggendo in russo, non cercavo solo di decifrare frase dopo frase ma avevo voglia di vedere come sarebbe andata a finire, e mi ricordo, ancora adesso, ventisei anni dopo, perfettamente, la vernice marrone della metropolitana di Mosca e la direzione del moto, tornavo dal centro, nel momento in cui avevo alzato la testa perché mi ero accorto, stavo leggendo da un libro che ho ancora, Romany, che significa Romanzi, di Michail Bulgakov, edizioni Sovremennik 1988, che contiene La guardia bianca, Romanzo teatrale e Il maestro Magherita, e io avevo alzato la testa, nel mio vagone verde e marrone della metropolitana Lenin di Mosca, nel momento in cui mi ero accorto che il primo romanzo in russo che aveva prodotto nella mia testa la voglia di vedere come andava a finire, Romanzo teatrale, era un romanzo incompiuto.
«Che coglione, che sono», avevo pensato.
E guardando le altre persone che erano nel mio stesso scompartimento verde e marrone della metropolitana Lenin di Mosca, mi era sembrato che mi guardassero tutti pensando «Che coglione, che sei».
9. Quello che faccio io di mestiere
Io, di mestiere, quando me lo chiedono, dico che scrivo dei libri, non dico che faccio lo scrittore perché mi sembrerebbe di darmi dell’importanza; la frase «Faccio lo scrittore» a me, non so perché, sembra una frase sfacciata, mentre la frase «Scrivo dei libri» mi sembra vera, se non altro.
Adesso, mentre sto scrivendo questo articolo, un mio conoscente mi ha chiesto con un messaggio sul telefono la mail di un funzionario dell’Einaudi, e io la sono andata a cercare sulla mia casella di posta elettronica, e ho trovato che l’ultimo messaggio che ci siamo scambiati, con quel funzionario dell’Einaudi, risale al novembre del 2013, quando quel funzionario mi chiedeva un testo per festeggiare gli ottant’anni della casa editrice e io gli rispondevo con il testo seguente:
10. 29 libri
«Credo di aver pubblicato, da quando ho cominciato a pubblicare, nel 1999, 29 libri, e la casa editrice con la quale ne ho pubblicati di più (7) è l’Einaudi, anche se a me non sembra. Non mi sembra perché l’idea di quei libri lì così bianchi, così lontani, così algidi, così einaudiani, non si concilia, nella mia testa, con la mia pratica di scrittura che è così sporca, così vicina, così febbrile, così poco elegante, forse. Io, l’ho già raccontato un’altra volta, e forse anche due, questa cosa – scrivevo nel 2013 – ma quando avevo appena firmato il primo contratto con l’Einaudi, nel ‘99, io mi ricordo un pomeriggio, lavavo i piatti, ho alzato la testa ho pensato “Guardalo qua, uno che sta per pubblicare per Einaudi, guardalo qua che lava i piatti. Che umiltà” ho pensato. E poi mi ricordo ho pensato “Ma sei deficiente?”. E dopo poi niente».
Ecco.
11. Di cosa parlano, questi romanzi?
Quando una persona che non mi conosce mi chiede che mestiere faccio, e io gli rispondo che scrivo dei libri, e lui di solito mi chiede che tipo di libri, e io gli rispondo romanzi, e lui di solito mi chiede che tipo di romanzi, e io allora non so mai cosa dirgli potrei dirgli che sono romanzi che prevalentemente, trattano della mia coglionaggine, se così si può dire. Continua a leggere »