domenica 8 Dicembre 2013
Un attimo fa qui si parlava ancora di calcio, quella strana cosa che talvolta piace anche a me e dove la grande gioia, il grande dolore, dipendono da un pallone che deve passare tra due pali e sotto una traversa. Quelli che lo fanno passare, tra l’altro, sono ragazzi molto abili, dei veri artisti,e il loro gioco può scatenare anche enormi entusiasmi, ma supponiamo che non interessi a nessuno, nemmeno a me, se quel pallone passa tra i due pali oppure no, allora tutta la loro abilità sarebbe inutile.
Quando sono arrivato all’osteria, la sera tardi e stanco, la partita era già finita, e così sono solo stato testimone di quella grande gioia e di quel grande dolore, e visto che non ero dell’umore giusto per informarmi su chi avesse giocato contro chi, tutta quella gioia sembrava riempire il locale senza motivo e mi ha ricordato quanto possa essere inutile il tentativo di portare il pallone a passare tra due pali. Erano tutti pensieri dovuti alla stanchezza. Avevo avuto una giornata dura, ero stato seduto a un tavolo per ore, avrei dovuto scrivere qualcosa e non mi era venuto in mente niente: non una parola, non una frase, niente, la solita sofferenza. Ora stavo lì seduto all’osteria e aspettavo che venisse l’ora del mio autobus, bevevo un bicchiere di vino sperando nell’indomani, e il mio cervello lavorava ancora in cerca delle parole che per quel giorno non si erano presentate.
[Peter Bichsel, Quando sapevamo aspettare, traduzione di Anna Allenbach, Bologna, comma 22 2010, p. 82]
giovedì 31 Ottobre 2013
Lo sconosciuto dall’aspetto curato, probabilmente un imprenditore, con cui sto seduto al tavolino di un bar della stazione e con cui ho già scambiato qualche parola sul tempo, estrae con eleganza, dall’apposita tasca interna della giacca, un pacchetto di sigarette e se ne infila una tra le labbra. Io faccio scattare la fiamma e sto per allungargli l’accendino acceso. Ma lui rifiuta. «Ce l’ho io.» E tira su e mette sul tavolo la ventiquattr’ore, la apre e prende in mano un sacchettino di pelle scamosciata, lo slaccia gingillando a lungo, ne estrae un bellissimo accendino dorato, fa scattare il coperchio, fa vibrare la molla, sembra seguirne il suono con l’orecchio, lo fa fiammeggiare e si accende la sigaretta con la stessa devozione con cui si metterebbe in funzione un costoso sigaro. Solo in quel momento gli viene in mente che il suo comportamento è un po’ infantile. Si vergogna, si gira dall’altra parte, chiama la cameriera, paga e se ne va, senza salutare.
Lui deve aver pensato che il suo rifiuto del mio accendino mi era parso ridicolo, e io non avrei mai avuto modo di consolarlo o di dirgli che mi piaceva il suo amore per il suo bellissimo accendino nuovo. conosco bene quella situazione: si compra una cosa nuova che ha una certa funzione, si leggono le istruzioni per l’uso, tutte le avvertenze, tutte le garanzie, e poi ci si siede da qualche parte (per esempio al bar della stazione) e la si fa funzionare per la prima volta. E poi ci si ritrova davanti un idiota gentile che rovina tutto. perché quell’accendino straordinario e costoso funziona solo una volta, solo la prima volta che lo si accende funziona davvero. Già dopodomani lo sconosciuto si sarà abituato all’accendino, così come si è abituato alle sigarette. E fra una settimana ringrazierà con cortesia, quando qualcuno gli offrirà da accendere. Non estrarrà più il suo accendino come uno che se ne intende. Mi dispiace moltissimo di avergli rovinato la gioia di quella prima e unica volta.
[Peter Bichsel, Quando sapevamo aspettare, traduzione di Anna Allenbach, Bologna, Comma 22 2011, pp. 79-80]
sabato 21 Settembre 2013
Qualcuno un giorno mi ha raccontato del suo anziano suocero, uno svizzero che per anni aveva lavorato nei cantieri. La famiglia lo aveva portato in vacanza in un paesino toscano. Il suocero non era mai stato in Italia, ma l’Italia non gli era del tutto sconosciuta. Nei cantieri in cui aveva lavorato, in Svizzera, era sempre un po’ in Italia, un po’ in Spagna, in Jugoslavia, in Turchia, e così il primo giorno era subito andato al bar del paese, ma poco dopo era tornato sconvolto. «Qui non c’è nessuno che parla l’italiano», aveva detto, perché lui era convinto di sapere l’italiano. Ma evidentemente il suo italiano non era italiano. Era solo una lingua usata per capirsi nei suoi cantieri (un misto, forse, di tutte le lingue che si parlavano lì, non italiano, non spagnolo o croato, soltanto una lingua che si era imposta, che non bisognava studiare e che non era stata inventata da nessuno) una lingua che si era imposta perché ci si voleva capire. Ma il suocero aveva comunque molto esercizio nell’accettare la lingua che s’impone lì per lì, e nel giro di una settimana si era imposta un’altra lingua e lui capiva e si faceva capire da tutti nel baretto, anche se continuava a soprenderlo il fatto che gli italiani, stranamente, non parlassero italiano.
[Peter Bichsel, Quando sapevamo aspettare, traduzione di Anna Allenbach, Bologna, Comma 22 2011, p. 71]
venerdì 20 Settembre 2013
Qualche giorno dopo, sto camminando in città poco prima che cali la notte e passo accanto a un uomo che parla animatamente con la sua bambina di circa tre anni. Lui parla svizzero-tedesco, e lei parla e argomenta in un’altra lingua, la lingua di sua madre, probabilmente. Poiché passando saluto, il padre mi dice: «A casa non ci vuole venire, vuole rimanere qui», e io dico «Infatti, si dorme bene qui», e ora lei ha un alleato e mi parla in quella lingua sconosciuta e sorride, e raggiante guarda anche suo padre. E benché io non la capisca, tra noi due si istaura una specie di intesa. Prende per mano il padre e se ne va con lui, si gira e mi saluta con la mano, siamo alleati, da me si sente capita, anche se molto probabilmente sa che io non capisco la sua lingua.
[Peter Bichsel, Quando sapevamo aspettare, traduzione di Anna Allenbach, Bologna, Comma 22 2011, pp. 70-71]
venerdì 20 Settembre 2013
In autobus, seduti dietro di me, ci sono due giovanotti e parlano molto animatamente. Non riesco a capire se il tono alto della loro conversazione sia dovuto a un litigio o all’entusiasmo comune per qualcosa, per una marca di automobili per esempio, per un pugile o per la squadra nazionale di non so che disciplina sportiva o se non sia semplicemente una chiacchierata cordiale, che avviene con l’impeto che sono soliti usare loro per esprimere l’amicizia.
Non conosco la loro lingua. E non li ho notati quando sono salito. Mi limito ad ascoltare la loro lingua e cerco di immaginarmeli: capelli scuri, cappellino da baseball messo al contrario e jeans di qualche misura di troppo, e solo per verificare se la mia immagine corrisponde o meno alla realtà, mi giro e incrocio lo sguardo di uno dei due e lui respinge il mio sguardo: fatti gli affari tuoi.
Il loro aspetto è esattamente quello che avevo immaginato; e solo per imbarazzo chiedo: «Che lingua parlate?». E uno dei due in tono molto brusco risponde: «Arabo», e non so se la risposta irruente segnali semplicemente l’orgoglio o di nuovo quel: fatti-gli-affari-tuoi. Dico: «Che bella lingua», e mi guardando senza indulgenza. Mi rigiro in avanti.
Siccome scendiamo alla stessa fermata, uno dei due mi guarda raggiante e con un forte accento bernese mi dice: «E poi parliamo anche lo svizzero-tedesco».
[Peter Bichsel, Quando sapevamo aspettare, traduzione di Anna Allenbach, Bologna, Comma 22 2011, p. 70]
giovedì 1 Agosto 2013
Mentre stiamo seduti lì al tavolo rotondo è in corso l’ultima regata di Alinghi contro la Nuova Zelanda. Con il mio telefonino vado su internet e m’informo sulla situazione della gara. «Alinghi è in testa», dico agli esperti di sport, e loro mi guardano annoiati e chiedono: «Ti interessa?». «No», dico io.
[Peter Bichsel, Quando sapevamo aspettare, traduzione di Anna Allenbach, Bologna, Comma 22 2011, p. 85]
martedì 16 Luglio 2013
Integrazione? Perché quando si parla di questo argomento mi viene sempre in mente quel vecchissimo musicista jazz americano che durante un concerto a Willisau si lamentò di non essere mai stato seduto su un melo? Il giorno dopo, chiamando, per maggior sicurezza, i pompieri con una scala, lo fecero salire sul melo più grande che c’era nei dintorni. E lui rimase lì, seduto, ed era felice.
[Peter Bichsel, Quando sapevamo aspettare, traduzione di Anna Allenbach, Bologna, Comma 22 2011, p. 45]
domenica 16 Giugno 2013
Spesso mi capita di non sapere se gli esseri umani mi piacciono o no, ma di una cosa sono certo, che mi piacciono i loro rumori. Mi piacciono le loro voci, mi piacciono le loro lingue, il loro gridare e sussurrare. Mi piacciono i rumori che fanno con le mani, con gli attrezzi, i macchinari e persino il suono di un martello pneumatico mi piace di più del silenzio assoluto. Preferisco una stanza d’albergo rumorosa a quella tranquilla che dà su un orribile o – peggio ancora – curato cortile interno. Ho bisogno dei rumori per addormentarmi e ho bisogno dei rumori per svegliarmi.
Ho bisogno dei rumori per lavorare. Sarà per questo che per scrivere i miei elzeviri prendo il treno. Non per viaggiare, ma solo per star seduto e avere nelle orecchie il rumore del viaggiatore. Mi metto in seconda classe che ha un’offerta sonora e vocale più ricca. L’offerta dei ricchi in prima classe è più povera.
[Peter Bichsel, Quando sapevamo aspettare, traduzione di Anna Allenbach, Bologna, Comma 22 2011, p. 15]
mercoledì 8 Giugno 2011
Ho bisogno dei rumori per lavorare. Sarà per questo che per scrivere i miei elezeviri prendo il treno. Non per viaggiare, ma solo per star seduto e avere nelle orecchie il rumore del viaggiatore. Mi metto in seconda classe che ha un’offerta sonora e vocale più ricca. L’offerta dei ricchi in prima classe è più povera.
Peter Bichsel, Quando sapevamo aspettare, cit., p. 15
sabato 4 Giugno 2011
Il mio caro amico paterno Max, dopo una notte passata a gozzovigliare a Berlino, mi si piazzò davanti e mi spiegò come funziona la vita. Qui vorrei riportare il suo discorso, ma ricordo soltanto che è stato un discorso commovente e grandioso, un grandioso atto unico, e ricordo anche quanto il suo discorso mi avesse colpito. Elencava tutto quello che avrei dovuto avere, oltre a quello che già avevo, per questa vita: una fidanzata, per esempio, magari una tessitrice – sì, aveva detto proprio così, me lo ricordo bene – e poi anche una macchina da scrivere ultra leggera per i viaggi, così Max era andato nell’altra stanza e aveva preso una macchina da scrivere e me la voleva assolutamente regalare. Dopo di che era andato a prendere una cartelletta e mi voleva regalare anche quella, e ben presto era arrivato con le cose più improbabili, penne stilografiche, seggiolini pieghevoli, termos, una torcia di ottima qualità, un atlante astronomico, e mi voleva regalare ogni cosa, e altro ancora. E per tutto quel tempo, per ore intere, io me ne ero rimasto lì, in silenzio, e avevo ascoltato il suo discorso con lo stupore che avrei provato guardando lo spettacolo di un grande attore o di un pagliaccio. Ma i regali no, quelli li rifiutavo con cortesia e loquacità, dicevo di avercela già una macchina da scrivere uguale a quella, anche un termos, e che l’atlante astronomico me l’aveva già regalato lui, anni prima, inoltre, che tutte quelle cose non me le potevo portare dietro, in aereo, e in Svizzera. Poi mi aveva offerto una casa di vacanza in Engadina, aveva raccontato di un caro amico in Portogallo, che mi avrebbe potuto ospitare, era andato a prendere addirittura una cartina di Lisbona, e mi aveva segnato minuziosamente il percorso che avrei dovuto seguire il primo giorno per farmi un’idea della città, mi aveva poi spiegato dove avrei dovuto bere il caffè e in quale bar con i tavolini che davano sulla strada, avrei potuto bere, più tardi, un bicchiere di rosso.
E poi, il bagliore del nuovo giorno entrava ormai dalla finestra, era tornato nell’altra stanza, era rimasto di là per molto tempo e cominciavo a pensare che fosse andato a dormire, ma alla fine era tornato con una piccola borsa di pelle molto pregiata, l’aveva aperta e mi aveva mostrato tutte le tasche interne, una scomparto per due camice, uno per la carta e per la macchina da scrivere, una tasca per il passaporto e altri documenti e mi aveva detto: «È questa la borsa che ti serve, con questa puoi viaggiare in aereo e andare a New York senza bagagli. Però non te la posso dare, questa serve a me».
[Peter Bichsel, Quando sapevamo aspettare, traduzione di Anna Allenbach, Bologna, comma 22 2011, pp. 73-74]