Verbali tutta la vita
Si sa che come niente ci si abitua alle cose più strane; eppure, mi sembra sempre un fatto dei più singolari che io mi sia quasi acclimatata in quell’ambiente sinistro, proprio del tribunale (o forse son capitata in un angolo dei più bui?), a questi continui dialoghi tra sordi, alla conclamazione ininterrotta delle bugie e delle più demenziali decisioni, ai vari e aggrovigliati metodi per soffocare lo scandalo, per insabbiare la verità, allo spettacolo dei generosi continuamente battuti dai meschini insolenti. Ed è certo soltanto ingenuità la mia, ma ormai è da troppo tempo che son dentro il labirinto giudiziario per non rendermi conto che in quei tortuosi meandri la giustizia è un lusso soltanto.
Mi sono andata abituando anche al gergo del tribunale; quello legale, fatto apposta per rendere oscura qualsiasi decisione, anche delle più semplici; quello dei verbali, particolarissimo, che anch’esso non chiama mai le cose con il loro nome, e quello del giudice presidente che, siccome ha letto verbali tutta la vita, detta al cancelliere le frasi dei testimoni tutte tradotte a modo suo, e con un tantino di eleganza in più, in confronto a come parlano i subalterni.
“Avevo l’abitudine” dice semplicemente il teste o l’imputato, ed “ero uso” traduce il giudice. “mi tornarono a dire di seguirli” diventa “un’altra volta mi rivolsero siffatto invito.” Quindi: “tornavano sempre a dirmi la stessa cosa” è “mi rivolgevano sempre il succennato discorso.” Mentre “fatto com’era ce l’avrebbe detto di certo,” viene dettato “data la sua essenza non si sarebbe astenuto dal farcene partecipi.” “In quel periodo” si trasforma in “in quel torno di tempo,” “quando” è sempre “laddove”; “misi dentro la testa” è “allora feci capolino” (anche se si tratta di un muscoloso brigadiere col testone); “mentre riponevo le carte” si trasforma in “mentre accudivo al riporre” e “per trovarlo” è tradotto “al fine del rintraccio.” Continua a leggere »