martedì 24 Dicembre 2019
Le idee di Maurice non erano sempre astratte come quelle dei numeri maiuscoli. Ve n’erano altre di genere molto pratico che potevano servire, come lui stesso annotava, per ottenere la concessione di brevetti industriali. Una, che mi colpì più delle altre, riguardava una macchina per lavare i piedi, poco dissimile da una comune lavatrice o lavastoviglie di oggi, nella quale, dopo aver introdotto del sapone in polvere, faceva entrare dell’acqua calda che veniva agitata da un’elica posta dietro una grata. Il piede, introdotto nella macchina attraverso un’apertura protetta da un manicotto di gomma che stringeva la gamba a metà polpaccio, veniva a trovarsi avvolto da un turbine d’acqua saponata che presto defluiva da un foro di scolo lasciando il posto a un getto d’acqua calda per risciacquare. Espulsa l’acqua del risciacquo, entrava un flusso d’aria calda che asciugava il piede. Nelle note illustrative della sua macchina, l’inventore, rilevato che lavare i piedi è operazione sempre disagevole e pericolosa, faceva notare la praticità della sua lavatrice, che era da tenere in bagno, accanto al lavabo.
[Piero Chiara, Il cappotto di astrakan, Milano, Mondadori 1978, p. 68]
sabato 19 Agosto 2017
C’erano poi, specialmente nei paesi delle vallate che scendono verso Luino, i muratori, gl’imbianchini e gli stuccatori che da secoli andavano in Francia, in Svizzera e in Germania a lavorare, seguendo itinerari famigliari. E tanti cuochi e camerieri, quasi tutti nelle valli di Dumenza o di Colmegna e Maccagno, che arrivavano fino in Inghilterra. Qualcuno di questi che tornava coi soldi e si comperava un ristorante o un albergo, lo dotava di posate che portavano inciso il nome dei più grandi alberghi d’Europa. Le avevano rubate pazientemente, un poco alla volta, già col pensiero di mettersi un giorno per conto proprio nel mestiere.
Fu un imbianchino di Dumenza, tal Vincenzo Peruggia, che nel 1911, trovandosi a lavorare al Louvre, rubò la Gioconda di Leonardo da Vinci. Se la portò a Luino arrotolata nella sua valigia d’emigrante, poi a Dumenza dove ogni tanto, dopo mangiato, la tirava fuori da sotto il letto e la mostrava ai famigliari. Sarebbe ancora a Dumenza la Gioconda se il Peruggia un giorno non avesse pensato di venderla. Appena la srotolò all’Albergo Tripolitania di Firenze dove aveva appuntamento col direttore della Galleria degli Uffizi, venne arrestato e la Gioconda tornò a Parigi.
[Piero Chiara, Il piatto piange, Milano, Mondadori 1995 (VI), p. 6]
mercoledì 16 Agosto 2017
Il mio paese, dandomi allo scrivere, divenne lo sfondo di molte delle mie storie. Tutto è accaduto in quel paese, perché tutto è accaduto in me. Guai, scrisse qualcuno, allo scrittore che non ha dietro di sé un territorio preciso, una geografia e addirittura una topografia ben definita, vissuta, nei confronti della quale possa verificare passioni e sentimenti.
[Piero Chiara, Di casa in casa, la vita, Milano, Mondadori 2013, p. 13]
martedì 15 Agosto 2017
«Lei deve dunque sapere» attaccò rivolgendosi più al Lunardini che a me «che il Merdicchione si era opposto con insistenza a una giusta richiesta di Sua Eccellenza Mordace. Quel cognome è chiaro che non stava bene a un magistrato: si poteva e si doveva modificarlo e correggerlo. Ma lui non ne voleva sapere. Allora Mordace cosa fa? Per smuoverlo, inizia una procedura d’ufficio. Comincia col richiedere al paese di nascita del Merdicchione la copia integrale del suo atto di nascita. E cosa capita? Che in calce all’atto di nascita figura un’annotazione: “Il Merdiccione Giovanni di cui al presente atto è deceduto in data 4 settembre 1930”. Deceduto! Qui, il Mordace mangia la foglia, anzi, la morde. Comincia a istruire un procedimento penale e chiede al procuratore del re di Trani di aprire un’inchiesta. Tutto diventa chiaro: il Merdicchione Giovanni defunto era un laureato in legge che nel 1929 aveva vinto un concorso per sessantacinque posti di uditore di pretura. Nel 1930 quando, arrivata la nomina, si accingeva a partire per la Pretura di Napoli dov’era stato destinato, una febbre tifoide lo mandò all’altro mondo. Figuratevi una famiglia meridionale che riesce a portare un figlio alla laurea e poi a farlo entrare in magistratura! Una quaterna al lotto! Sfumata di colpo, rientrata nel nulla. In famiglia c’era un cugino della stessa età ma d’altro cognome: Giuseppe Quattropalmi. Un giovane sfaccendato che al secondo anno di legge aveva interrotto gli studi. Qualcuno nella famiglia ebbe l’idea di passargli i documenti del morto, che gli somigliava come un fratello e d’infilarlo tra i vincitori del concorso. Era arrivata, proprio in quei giorni, l’assegnazione del Merdicchione alla Pretura di Napoli. Il Quattropalmi si presentò in luogo del morto e venne immesso nelle funzioni. Dopo un anno di uditorato fu nominato pretore e trasferito ad Aidussina. Ma si trovava nella stessa situazione di un falso prete che amministri i sacramenti. Mancava del carisma. E si sentiva. Le sue sentenze avevano qualche cosa di approssimativo, di incerto, anche nella forma. Specialmente nella forma.
«Quando Sua Eccellenza Mordace» continuò «di nulla sospettando, lo mandò a chiamare per indurlo a cambiare cognome, si impuntò. Merdicchione sono nato e Merdicchione voglio morire, disse. Sfido! Si era reso conto che per ottenere la modifica avrebbe dovuto produrre la copia integrale dell’atto di nascita e si sarebbe scoperto il trucco.
[Piero Chiara, Vedrò Singapore?, Milano, Mondadori 2014, pp. 84-85]
lunedì 14 Agosto 2017
Fu in quei giorni che il pretore Merdicchione venne chiamato alla procura generale di Trieste.
Partì alle sei della mattina accompagnato dall’ufficiale giudiziario Bolognini in automobile e tornò al pomeriggio. Quando, guardando dalla finestra, lo vidi entrare dal cancello seguito dal Bolognini, andai di sopra per sentire le novità.
Merdicchione, Bolognini e Semitecolo erano nello stanzino del poker, seduti al tavolo. Il pretore aveva appena incominciato a raccontare:
«Alle nove in punto un usciere m’introdusse nell’ufficio di Sua Eccellenza Mordace, che mi fece sedere, mi guardò come si guarda uno strano animale poi, a bruciapelo, mi disse: “Un magistrato, in questi posti e direi in qualunque luogo d’Italia, non può avere un cognome come il suo, tanto più quando esiste la possibilità di modificarlo. La Corte d’Appello, a sua domanda, in qualche settimana può ordinarne la modifica, disponendo l’annotazione del provvedimento sui registri dello Stato Civile. Chiunque ha diritto di mutare il proprio cognome quando sia tale da esporlo al ridicolo e allo scherno. Le è in questo caso e spero che se ne renda conto”
«”Eccellenza” osservai “quando ho partecipato al concorso nessuno mi ha detto che col mio cognome non avrei potuto fare il magistrato.”
«”Ma glielo dico io!” proruppe Mordace “e ho l’autorità per dirglielo” Lei può scegliere un cognome che differisca il meno possibile dal suo: Mordicchione, per esempio. Oppure Murdicchione, Ferdicchione, Perdicchione, Serdicchione, Verdicchione, Zerdicchione. Tutto, ma non Merdicchione. Lei non può mandare in giro sentenze e decreti che vanno fra il pubblico con sotto quel cognome!”
«Mi sentivo umiliato, distrutto.»
«Allora» lo interruppe Semitecolo «ha accettato la proposta?»
«Neanche per idea!» esclamò il pretore. «Mi è venuto, improvvisamente, un coraggio da leone. Tanto che gli ho detto, pacatamente: “Eccellenza, nella mia famiglia abbiamo avuto nel secolo scorso un generale dell’esercito borbonico e quarant’anni fa un monsignore di Santa Romana Chiesa. Nessuno, né il re di Napoli né il papa, si è mai sognato di indurli a mutare cognome. E io non posso, semplice pretore come sono, portare un simile disdoro alla mia famiglia, che è degna del più grande rispetto. Ho parenti ingegneri, medici, insegnanti, che si onorano di questo casato. Come potrei, tornando in Puglia, a casa mia, presentarmi a mio padre, che è giunto alla veneranda età di ottant’anni, ai miei fratelli, agli zii, ai cugini, agli stessi miei concittadini? Dovrei dire ai miei parenti: non appartengo più se non per sangue alla vostra schiatta, perché mentre voi restate Merdicchioni io sono diventato Mordicchione, oppure Verdicchione. Mi chieda qualunque cosa, Eccellenza, mi faccia trasferire in Puglia, o anche in Calabria, in Sardegna, ma consenta che resti Merdicchione. Merdicchione sono nato e Merdicchione voglio morire!”»
«Bravo!» approvò Semitecolo.
[Piero Chiara, Vedrò Singapore?, Milano, Mondadori 2014, pp. 62-65]
sabato 12 Agosto 2017
«La mia signora» disse indicandomi la prima.
Mi inchinai profondamente.
«Mia cognata Matilde Scrosati vedova Berlusconi», che era molto più giovane della prima.
Mi inchinai non meno profondamente, in omaggio alla vedovanza, che doveva essere recente perché la signora indossava un vestito nero di chiffon.
[Piero Chiara, La stanza del vescovo, Milano, Mondadori 2013 (21), pp. 9-10]
venerdì 11 Agosto 2017
Fuga, o diaspora, come venne chiamato il fenomeno a seconda dei gusti, che ebbe i suoi varchi più praticati nel tratto di confine tra il Lago Maggiore e il Lago di Como, con una punta di preferenza tra le colline che da Viggiù digradano al Mendrisiotto e in particolare nei dintorni del valico doganale di Caggiolo, dove passarono per primi, l’11 settembre 1943, venti prigionieri inglesi evasi dai campi italiani, seguiti il giorno dopo da novanta senegalesi, anch’essi provenienti dai campi di concentramento aperti alla proclamazione dell’armistizio. La sera di quello stesso giorno, dal vicino valico della Cantinetta sopra Ligornetto, entrava in formazione chiusa tutto il reggimento “Savoia Cavalleria”: 15 ufficiali, 642 sottufficiali e soldati, 316 cavalli, 9 muli. Seguivano 8 autocarri, 2 automobili, 2 motofurgoncini, una motocicletta, 32 biciclette, 4 carrette e 4 barrocci che portavano, fra l’altro, un pacco di sigari toscani, 30 bottigliette d’inchiostro, 2 pompe da bicicletta, un lucchetto, 31 ferri da cavallo, 14 forme di parmigiano, 13 sacchi di fagioli e 17 sacchi di maccheroni. Le armi erano in proporzione: 744 fucili, 19 mitragliatrici, pistole, baionette, sciabole e più di 70.000 cartucce. Così, stando al rapporto del colonnello Bolzani.
[Piero Chiara, Le corna del diavolo, Milano, Mondadori 2011, pp. 87.88]
giovedì 10 Agosto 2017
A prima vista mi era parso una pelliccia della Lenormand, di breitschwanz o di karakul, ma la donna presentandomela disse che si trattava di un capo di gran valore fatto confezionare da suo figlio prima della sua partenza presso un grande sarto. «Fu» disse «un’idea di Maurice. Voleva un cappotto non con la pelliccia all’interno come si usa comunemente, ma all’esterno. Diceva che in Russia, al temo degli zar, i signori portavano cappotti di quel tipo lunghi fino ai piedi. Perciò è un po’ lungo… Andrebbe portato on un colbacco dello stesso pelo in testa e un paio di stivali ai piedi.»
Mi vidi, quando avessi indossato quella pelliccia, simile a un Michele Strogoff o a qualche personaggio di Tolstoi, ma non osai sorridere. Guaredai bene il cappotto, che aveva una martingala sopra lo spacco posteriore e un colletto rialzato, come certi pastrani militari dell’epoca napoleonica. Era di colore grigio argento con riflessi quasi azzurri e una fodera di satin bleu all’interno sulla quale spiccava l’etichetta di un sarto.
Al mio paese, con un cappotto simile non sarei mai comparso, ma a Parigi si può portare tutto, anche un elmo col pennacchio. Nessuno si sarebbe mai voltato a guardarmi per strada.
[Piero Chiara, Il cappotto di Astrakan, Milano, Mondadori 2015 (14), p. 40]
martedì 8 Agosto 2017
Stanotte, a Bologna, in piazza maggiore, ho rivisto Venga a prendere il caffè da noi, di Alberto Lattuada, tratto dal romanzo La spartizione, di Piero Chiara, dove c’è Ugo Tognazzi che fa schifo in un modo bellissimo, secondo me, soprattutto quando mangia, o quando prende il caffè, e a una delle tre sorelle orfane che lo invitano a prendere il caffè chiede di dov’era il padre, morto da poco, «Di Cogliuno», risponde la sorella, «Cogliuno di Sopra?», chiede Tognazzi, «No, di Sotto» dice la sorella, «Ah, certo, i due Cogliuni» dice Tognazzi.