venerdì 31 Marzo 2023

«Ma soprattutto, soprattutto, rifare a piedi, con lo zaino sulle spalle, la strada da Monte San Savino a Siena, costeggiare quella campagna di ulivi e di viti, di cui sento ancora l’odore, percorrere quelle colline di tufo bluastro che s’estendono sino all’orizzonte, e vedere allora Siena sorgere nel sole che tramonta con tutti i suoi minareti, come una perfetta Costantinopoli, arrivarci di notte, solo e senza soldi, dormire accanto a una fontana ed essere il primo sul Campo a forma di palmo, come una mano che offre ciò che l’uomo, dopo la Grecia, ha fatto di più grande. Sì, vorrei rivedere la piazza inclinata di Arezzo, la conchiglia del Campo di Siena e mangiare ancora i cocomeri per le strade calde di Verona. Quando sarò vecchio, vorrei che mi venisse concesso di tornare su quella strada di Siena, che non ha eguali al mondo, e di morirvi in un fossato, circondato soltanto dalla bontà di quegli italiani sconosciuti che amo».
[Stasera, a Siena, ho cominciato la presentazione leggendo questa cosa che viene dai Taccuini di Albert Camus ma che io ho trovato citata in Piergiorgio Bellocchio, L’Italia di Camus, in Al di sotto della mischia, Milano, Scheiwiller 2007, pp. 115-116]
lunedì 26 Febbraio 2018

Per chi, come me, ha più di cinquant’anni, Massimo D’Alema è una parte del paesaggio politico che esiste da sempre, e descrivere le cose che esistono da sempre mi sembra molto difficile.
Qualche anno fa mi hanno chiesto di scrivere un pezzetto che parlasse dell’Emilia, e io avevo scritto che per uno che abita in Emilia, scrivere un pezzo che parli dell’Emilia era difficilissimo.
E mi era venuto in mente il periodo in cui una rivista mi aveva mandato nel Mississippi a scrivere di blues, e io ci ero andato e molti di quelli ai quali chiedevo cosa pensavan del blues mi guardavano stupiti e poi mi dicevano che loro, del blues, non ne pensavano niente.
E mi ero sentito come credo si sarebbe sentito un americano che fosse venuto in Emilia convinto che tutti gli emiliani ascoltassero il liscio, bevessero il lambrusco e mangiassero i tortellini quando si fosse accorto che c’eran degli emiliani che il liscio non lo ascoltavano e erano astemi e vegetariani.
E mi era tornata in mente una cosa che mi ha raccontato un mio conoscente bolognese che si chiama Jean Talon, il caso di quegli antropologi bolognesi che qualche decennio fa avevano invitato un cantastorie senegalese, uno che scriveva delle storie e poi le metteva in musica e le cantava ai suoi concittadini, l’avevano invitato a Bologna e gli avevano detto di osservare i bolognesi e di scrivere poi una canzone su di loro da cantare ai senegalesi e lui, tra le altre cose, aveva scritto che in Europa, al mattino, succedeva una cosa stranissima, c’era un sacco di gente che andava in giro legata ad un cane.
Che, per uno che non ha mai visto un guinzaglio, e non ha idea neanche di cosa sia, è esattamente quello che succede tutte le mattine, anche sotto casa mia, solo che vederlo è difficile, perché io son così abituato, ai guinzagli, che ho smesso di vederli, e con l’Emilia, mi sembra, succede la stessa cosa, avevo detto, e è per ovviare a questa mancanza di intelligenza nel mio sguardo, che secondo alcuni critici e alcuni teorici dell’arte esistono l’arte e la poesia.
L’arte, ha scritto una volta un filosofo che si chiama Agamben, non serve per rendere visibile l’invisibile, serve per rendere visibile il visibile, e questa cosa, con l’Emilia, a me è successa grazie alla fotografie di Luigi Ghirri, avevo detto.
Prima di vedere le fotografie di Luigi Ghirri, se pensavo all’Emilia io, oltre che al ballo liscio, al lambrusco e ai tortellini, pensavo a poche cose, ai pioppi e al fiume Po, prevalentemente; c’erano queste immagini abusate che non avevano niente a che fare con le mie giornate, abito lontano dai pioppi e dal Po, ma che erano da qualche parte nella mia testa dentro una cartellina con su scritto «Emilia».
Dopo che ho visto le fotografie di Ghirri, io mi sono accorto che in Emilia ci sono anche i distributori di benzina, i semafori, le fermate dell’autobus, la neve, i bambini che si vestono da Batman per carnevale, i gommisti, le saracinesche, le pubblicità, il cielo.
Lui, Ghirri, con le sue fotografie, è come se avesse preso con due dita l’imballaggio che avvolgeva l’Emilia, sotto casa mia, e avesse tolto dal loro imballaggio che li rendeva invisibili i distributori di benzina, i semafori, le fermate dell’autobus, la neve, i bambini che si vestono da Batman per carnevale, i gommisti, le saracinesche, le pubblicità e il cielo che c’erano sotto casa mia e io adesso, è incredibile, riesco a vederli, e la cosa è ancora più incredibile se si considera che Ghirri, sotto casa mia, probabilmente, non c’è mai neanche passato.
Ecco: con l’Emilia, il discorso torna, con Massimo D’Alema, non so bene come fare.
Nel primo pezzo di questa serie sui politici, ho citato una cosa di Kurt Vonnegut che mi viene sempre in mente quando penso alla politica: «C’è un tragico difetto nella nostra preziosa Costituzione, e non so come vi si possa rimediare – scrive Vonnegut –. È questo: solo gli scoppiati vogliono candidarsi alla presidenza. E era così già alle superiori. Solo gli alunni più palesemente disturbati si proponevano per fare i rappresentanti di classe».
Be’, D’Alema, mi sembra evidente, fin dalla prima elementare si è proposto per fare il rappresentante di classe. Si capisce benissimo. Non c’è quasi neanche bisogno che lo si dica.
D’Alema è, da sempre, parte del nostro paesaggio politico, e non una parte di cui andare fieri, secondo me.
A me è successo più volte, come a tutti, credo, di portar degli stranieri in giro per l’Italia, e non gli ho mai detto «Vieni, vieni, che ti faccio vedere D’Alema». Non ci ho mai neanche lontanamente pensato.
Mi è successo invece una volta che ho sentito un signore che, parlando di D’Alema, ne ha dato una definizione che mi è sembrata illuminante e che è anche un po’ una previsione su come andranno a finire queste elezioni. Quel signore si chiama Piergiorgio Bellocchio, e una volta, di D’Alema, gli ho sentito dire: «Dicon tutti che è così intelligente così intelligente, la prende sempre nel culo. Era meglio uno più stupido».
[uscito ieri sulla Verità]
lunedì 18 Ottobre 2010

«Perché avete scelto il vostro mestiere?»: si tratta di un’inchiesta condotta su base mondiale dall’Unesco, i cui risultati non sono stati ancora resi pubblci ma di cui siamo in grado di offrire in anteprima un minimo campionario. Fa impressione la totale concordanza tra le risposte di quanti esercitano le più diverse professioni e mestieri e le risposte date dagli scrittori all’inchiesta di Libération «Perché scrivete?» della quale il lettore italiano conosce l’ampia scelta pubblicata su Reporter (13 e 23 aprile). Del resto, proprio il commento di Reporter sembrava anticpiare il problema quando parla di «risposte che potrebbe dare ciascuno di noi» e acutamente conclude: «È questo lo spirito del tempo: siamo tutti scrittori, o potremmo esserlo. Non lo siamo per un pelo».
Jose Benguela, facchino (Angola): «Ho cominciato a fare il facchino molto giovane, perché aveva la sensazione che qualcosa di essenziale mi mancasse. Assolutamente. Voglio sapere che cos’è. Dunque, faccio il facchino. Non capisco profondamente la realtà se non nell’atto di portare bagagli. E solo in quell’atto mi scopro. E in esso mi nascondo. Quando porto bagagli, non sento alcuna mancanza: etica, politica, affettiva. Niente. Al di fuori del facchinaggio, sono un perenne frustrato. Faccio il facchino per sentirmi vivo. Per vivere.»
Friedrich Zeller, Camionista (Svizzera). «La questione è: perché ho scelto un lavoro così duro? Perché è una passione. Quando guido il mio camion, sono davanti a una catastrofe. Ho sempre l’impressione di essere un dilettante, di non saper guidare, di non conoscere il percorso, la destinazione, i segnali stradali, di essere davanti al nulla. Ma è una passione.»
Isaac Samuelson, rappresentante di commercio (Usa): «Io faccio il rappresentante di commercio per la stessa ragione per cui respiro; perché, se non lo facessi, morirei».
Francesco Vitali, assessore (Italia). «Bisogna accettare di non sapere del tutto perché si fa l’assessore. C’è una linea d’ombra oltre la quale non si può andare…»
[Piergiorgio Bellocchio, Alfonso Berardinelli, Diario, cit., p. 53]
mercoledì 13 Ottobre 2010

Chi è quell’imbecille?
Sono io.
[Piergiorgio Bellocchio, Dalla parte del torto, in Diario, Macerata, Quodlibet 2010, p. 3]
lunedì 22 Febbraio 2010

«Ma soprattutto, soprattutto, rifare a piedi, con lo zaino sulle spalle, la strada da Monte San Savino a Siena, costeggiare quella campagna di ulivi e di viti, di cui sento ancora l’odore, percorrere quelle colline di tufo bluastro che s’estendono sino all’orizzonte, e vedere allora Siena sorgere nel sole che tramonta con tutti i suoi minareti, come una perfetta Costantinopoli, arrivarci di notte, solo e senza soldi, dormire accanto a una fontana ed essere il primo sul Campo a forma di palmo, come una mano che offre ciò che l’uomo, dopo la Grecia, ha fatto di più grande. Sì, vorrei rivedere la piazza inclinata di Arezzo, la conchiglia del Campo di Siena e mangiare ancora i cocomeri per le strade calde di Verona. Quando sarò vecchio, vorrei che mi venisse concesso di tornare su quella strada di Siena, che non ha eguali al mondo, e di morirvi in un fossato, circondato soltanto dalla bontà di quegli italiani sconosciuti che amo».
[Albert Camus, Taccuini, cit. in Piergiorgio Bellocchio, L’Italia di Camus, in Al di sotto della mischia, Milano, Scheiwiller 2007, pp. 115-116]