Due persone al proprio servizio
Nella Russia della prima metà dell’ottocento, l’importanza delle persone si misurava con il numero di anime che possedevano, cioè il numero dei servi della gleba che avevano al proprio servizio. Se si valutasse il consigliere di collegio Pavel Ivanovič Čičikov, il protagonista delle Anime morte, romanzo di Nikolaj Gogol’ del 1842, con questo metro, considerando che Čičikov ha due persone, al proprio servizio, il cocchiere Selifan e il servo Petruška, si potrebbe pensare che valesse pochissimo, in un mondo di possidenti che avevano migliaia e migliaia di anime, solo che Čičikov era bravissimo a barcamenarsi, in un mondo così complicato, e aveva escogitato uno stratagemma che gli avrebbe permesso di brillare.
Il conteggio delle anime si faceva allora durante i censimenti, che si tenevano ogni dieci anni, e tra un censimento e l’altro un possidente doveva pagare le tasse su tutte le anime censite, anche su quelle che nel frattempo erano morte. Čičikov, nel corso del romanzo, si presenta ai principali possidenti della città capoluogo di governatorato di NN e, dopo aver pranzato con loro, chiede se, dall’ultimo censimento, sono morte loro delle anime, e loro dicono che ne sono morte tante, e se ne lamentano, e lui dice «Sa cosa? Gliele compro io. Le venda a me»; e loro, altro che vendergliele, gliele regalano, contenti di liberarsi delle tasse da qui al prossimo censimento e lui, sulla carta, diventa un possidente con un numero di anime significativo e in grado di ambire ai finanziamenti statali predisposti per chi si stabilisce, con le sue anime, nelle terre vergini.
Le prima edizione delle Anime morte che ho letto, era un libro di mio nonno, un Oscar Mondadori del 1965, era costato 350 lire, era tradotto da Agostino Villa e cominciava col fatto che, dal portone di un albergo della città di NN era entrato un piccolo calesse a molle abbastanza bello, del tipo di quelli sui cui viaggiavano gli scapoli, i tenenti colonnelli a riposo, i capitani, i proprietari che avevano un centinaio di anime di contadini, cioè tutti quelli che erano definiti «signori di mezza tacca».
Su questo calesse c’era un signore non bello ma nemmeno brutto d’aspetto, né troppo grasso né troppo magro. «Non si poteva dire che fosse troppo vecchio», scrive Gogol’, «però non è che fosse neanche troppo giovane». Era il Consigliere di collegio Pavel Ivanovič Čičikov, possidente, in viaggio per affari privati.
Il mondo in cui si muove Čičikov, la città capoluogo di governato di NN., era una città né troppo grande né troppo piccola, la nobiltà del luogo non era né troppo alla mano né troppo snob, le regole non erano né troppo rigide né troppo lasche, il tempo atmosferico, perfino, era adatto a Čičikov, con delle giornate né troppo serene né troppo cupe, «ma di quella specie di colore grigiochiaro che hanno le vecchie finanziere dei soldati di guarnigione, quel battaglione di solito pacifico, ma in parte brillo nei giorni di festa».
Quando il piano di Čičikov comincia a funzionare, le signore, che fino ad allora avevano parlato poco di Čičikov «dal momento in cui cominciarono a circolar delle voci sulla sua natura di milionario, cercarono in lui delle qualità. Anche se le signore, non è che fossero interessate; la colpa l’aveva solo la parola “milionario”, non il milionario in sé, ma proprio la parola; perché nel solo suono di questa parola, non consideriamo i mucchi di soldi, c’è racchiuso qualcosa che fa effetto sulle persone vigliacche, e sulle persone così così, e sulle brave persone, in una parola su tutti, fa effetto. Un milionario ha questo vantaggio, che può guardare la viltà, la viltà disinteressata, pura, non fondata su nessun calcolo; molti sanno benissimo che non riceveranno niente da lui, e che non hanno diritto a ricevere niente, ma immancabilmente o gli corron davanti, o gli sorridono, o si tolgono il cappello, o brigano per farsi per forza invitare a un pranzo dove sanno che è stato invitato il milionario. Non si può dire che questa tenera inclinazione alla viltà fosse condivisa dalle signore: tuttavia in molti salotti si cominciò a dire che, naturalmente, non si poteva dire che Čičikov fosse una gran bellezza, però era proprio così come doveva essere un uomo, e bastava che fosse un po’ più grasso o un po’ più pienotto, che non sarebbe stata più la stessa cosa. Dopo di che si aggiungeva qualcosa che poteva suonare anche un po’ offensivo sul conto dell’uomo magro: che assomigliava più a una specie di stuzzicadenti, che a un uomo». Continua a leggere »