Gli altri

martedì 5 Dicembre 2017

Sull’autobus ero riuscito a sedermi davanti, vicino all’autista, sono sempre contento, io, quando riesco a sedermi, sugli autobus, e mi ero messo a leggere, mi metto sempre a leggere, io, quando sono seduto sull’autobus, e di solito leggo dei romanzi, che leggere dei romanzi, per me, quando sono sugli autobus, o sui treni, è come la macchina del tempo, arrivo che non mi accorgo della noia del viaggio, o del fastidio dei passeggeri che io, devo dire, se guardo oggettivamente ai miei sentimenti, la gente mi dà un po’ fastidio, a me.
Gli altri, non io, io vado bene, son gli altri, che non me li spiego, e gli altri, quando sono su un autobus, o su un treno, diventano i passeggeri che io, quando sono su un treno, o su un autobus, che qualcuno si viene a sedere vicino a me, io, la cosa che mi viene da pensare, “Ma proprio vicino a me, doveva venirsi a sedere, con tutti i posti che c’erano?”.

[Paolo Onori, Fare pochissimo, Milano, Marcos y Marcos 2017, p. 45]

La prima intervista di Paolo Onori

giovedì 30 Novembre 2017

Che alla fine, com’è normale, per un esordiente, non sa bene cosa dire: clic

Se no avrei potuto leggere il giornale

lunedì 27 Novembre 2017

Poi mi ero seduto mi ero messo a aspettare.
Purtroppo quel giorno lì era sabato, non avevo il giornale, se no avrei potuto leggere il giornale.
Avevo cercato tra i libri della libreria, ne avevo trovato uno che avevo già letto ma che avrei riletto volentieri.
Si intitolava Il libro dei fincipit; il fincipit era una pratica che consisteva nel prendere l’inizio di un libro o di una poesia o di una canzone famosa e nell’immaginare un seguito repentino e disastroso che avrebbe provocato la fine immediata di quell’opera o di quella canzone.
E mi ero seduto lì, sulla scaletta, e avevo letto: «Ei fu. Siccome immobile, pagava l’ICI; Chiamatemi Ismaele. Che a me vede il numero sul cellulare e non risponde; Non so che viso avesse, neppure come si chiamava mi spieghi come facevo a andarlo a prendere in stazione?; C’è una strana espressione nei tuoi occhi:
non ti sarai mica cagato addosso?; Alla fiera dell’Est, per due soldi, un topolino mio padre comprò. Ma io l’avevo già letto; Una rotonda sul mare, è mia sorella che nuota; Respiri piano per non far rumore,
o sei proprio morta?; Tanto gentile e tanto onesta pare,
invece non rilascia mai fattura; Meriggiare pallido ‘a soreta; “Chiamatemi Ismaele”. “Ismaeleeee!”; E se domani io non potessi rivedere te, fissiamo per dopodomani?; Una canzone per te; non te l’aspettavi, eh? Invece, eccola qua: però, ti avviso, fa cagare; Tutti ormai lo chiamavano Don Ciccio. Anche se il suo vero nome era Ismaele; Ho visto le menti migliori della mia generazione e ho pensato “Ah, andiam bene. Ah, andiam proprio bene, andiamo”».
Ero arrivato qui, che mi era suonato il telefono.

[Paolo Onori, Fare pochissimo, Milano, Marcos y Marcos 2017, pp. 212-213]

24 novembre – Milano

venerdì 24 Novembre 2017

Venerdì 24 novembre,
a Milano,
alle 19,
alla libreria Verso,
in corso di Porta Ticinese, 40
alle 19,
Claudia Tarolo e Paolo Onori
presentano
Fare pochissimo,
(se faccio in tempo vado a
vederlo anch’io)

La partecipazione

venerdì 24 Novembre 2017

Non mi piaceva, la mia collega, Enrica Spadoni in Coltellini.
E non mi piaceva, il quotidiano per cui lavoravamo, Emilia Today (il vostro quotidiano preferito).
E non mi piaceva, la televisione alla quale collaboravamo, Emilia Together (la vostra televisione preferita).
E non mi piaceva, il mio mestiere, chissà perché lo facevo.
Ogni tanto dovevo scrivere delle cose, non so, una volta mi avevano chiesto di dire che cos’era la partecipazione, e io, la mia prima reazione era stata «Cosa vuoi che sappia io della partecipazione?».
Poi, ero in cucina, nella mia casa, non nella casa di Nilde, NELLA MIA CASA, e mi era venuto da pensare a una cosa che mi succedeva tutti gli anni a un festival di letteratura slava, in Cecoslovacchia quando mi invitavano ai festival di letteratura slava, tanto tempo prima, che c’era una piazza, centinaia di persone che, mossi dalla voce di qualcuno che era in piedi su un palco, cominciavano a respirare insieme, come se fossero un’unica bestia.
E io, che ero lì con loro, non ero più io, ero una parte di quella bestia.
Non so cos’era, aveva qualcosa, è difficile usare la parola magia, nel nostro secolo così poco avventuroso, ma era una specie di magia.
Mi succede ancora con mia figlia e con Nilde: son dei momenti, ce ne son tre o quattro all’anno, chissà cosa succede, chissà cos’è che li scatena, ma noi, in quei momenti lì, non siamo più tre, siamo un’unica bestia, e è una cosa, non so come dire, commovente, avevo pensato lì in piedi, nel bianco della mia cucina, più che in piedi in punta, di piedi, trattenendo il fiato, era stato un pensiero che era si sviluppato dall’inizio alla fine e intanto che lo pensavo io non mi vedevo ma se mi fossi guardato, probabilmente avrei visto che ero in punta di piedi e che tenevo le labbra come a pronunciare una u, come se fossi un barista.

[Paolo Onori, Fare pochissimo, Milano, Marcos y Marcos 2017, pp. 31-32]

Iscritto a marzo del 2012

giovedì 23 Novembre 2017

[cliccare sull’immagine per ingrandire (grazie a Alice)]

Pàpa

mercoledì 22 Novembre 2017

Io, devo confessare, quando ero piccolo, fino a quando non avevo compiuto ventisette anni, io non ci avevo mai pensato, di fare una bambina.
Il primo momento che mi era venuto in mente di fare una bambina, era stato per via di una parola, la parola papa, che non c’entrava niente con la religione cattolica.
Che c’era stato un momento, tanti anni prima, che ero uno che studiava.
Cioè ero stato studente, come tutti.
Avevo fatto l’università, come tutti.
Avevo studiato lingua e letteratura russa, come tutti.
Cioè come tutti, come tutti quelli che hanno studiato lingua e letteratura russa.
E come tutti quelli che hanno studiato lingua e letteratura russa, ero andato in Russia a abitare, per un po’.
E ero andato a abitare in un appartamento di periferia, in uno di quei condomini di diciassette piani che c’erano allora alla periferia di Mosca e che immagino ci siano ancora.
E, all’epoca fumavo, e nell’appartamento dove abitavo, abitavo in casa di una famiglia di russi, e i russi con i quali abitavo non volevano che si fumasse in casa, e allora a fumare io andavo sul pianerottolo.
Che era il pianerottolo di un condominio della periferia di Mosca, al tredicesimo di diciassette piani e all’epoca, a Mosca, nei condomini di periferia, i pianerottoli non erano posti molto belli, c’era anche una cosa che si chiamava musoroprovòd.
Condotto di scarico dell’immondizia, significa, che era un condotto che si faceva tutti e diciassette i piani e mandava un odore suo particolare che era un odore che non c’era un gran buon odore, nel pianerottolo dov’ero io, a metà degli anni novanta, in un condominio della periferia di Mosca, dove fumavo delle sigarette bulgare che non erano delle gran sigarette, devo dire, e una sera, ero lì, sul pianerottolo, con intorno l’odore del condotto di scarico dell’immondizia, un’immondizia sovietica, con un odore tutto suo particolare, e avevo nella testa delle domande del tipo “Ma perché sto fumando delle sigarette bulgare? Ma non facevo prima a portarmele dall’Italia?”, e si era aperta la porta dell’ascensore e era uscito dall’ascensore un signore con il suo cappotto grigiofumo, il suo cappello di pelo grigiofumo, la sua borsa di fintapelle grigiofumo, i suoi resti di neve grigiofumo sulle spalle, era aprile, nevicava, erano le sei di sera, e questo burocrate sovietico di mezz’età tornava dall’ufficio, probabilmente, e aveva un fascino pari a niente, uno dei pochissimi russi con un carisma nullo che avevo incontrato fino a quel giorno, era tipo il mio dodicesimo giorno in Russia, e lui era uscito dall’ascensore, era arrivato alla porta del suo appartamento, l’aveva aperta con la sua chiave e, da dentro, era venuta la voce di un bambino che diceva «Pàpa!».
Che significa Babbo.
E aveva un modo così bello, così amorevole, era così contento, che fosse tornato suo babbo, che io mi ricordo che lì, il momento forse meno interessante, più basso del mio primo viaggio in Russia, era stato trasformato, da una parola, nel momento in cui, per la prima volta nella mia vita, avevo pensato che forse poteva valere la pena di fare un bambino.
O una bambina.
Stàsùdadòss.
Allora non lo sapevo.
Una bambina.
Sarebbe poi stata.
Stàsùdadòss.

[Paolo Onori, Fare pochissimo, Milano, Marcos y Marcos 2017, pp. 69-70]

Ti ho svegliato?

lunedì 20 Novembre 2017

Il mattino dopo ero stato svegliato alle sei e quaranta da una telefonata del mio avvocato.
Che mi aveva chiesto «Ti ho svegliato?».
«No», gli avevo detto io, con un tono come per dire «No no no».
A me, devo dire, io non ero contrario, a raccontar delle balle.
Mi piaceva anche, un po’, raccontarne.
Farle girare, vedere che effetto facevano.
Ma questa, quando il mio avvocato, chiamandomi alle sei e quaranta del mattino, mi aveva chiesto se mi aveva svegliato, il fatto di dirgli di no, che non mi aveva svegliato, non era una balla premeditata, era venuta su dallo stomaco, e anche se avessi voluto sforzarmi, credo che non sarei riuscito, a dire la verità, a dire di sì, che mi aveva svegliato, a nessuno, non solo al mio avvocato, non so perché.
Forse perché mi sembrava sempre di dormire troppo, e mi vergognavo, che gli altri sapessero che dormivo, alle sei e quaranta del mattino.
Ma al mio avvocato, in particolare, che si chiamava Matteo Bernazzoli, mi sarebbe stato molto difficile, dire di sì, che mi aveva svegliato, quando mi aveva chiamato alle sei e quaranta del mattino perché una volta, tanto tempo prima, gli dovevo aver detto che io mi svegliavo tutte le mattine alle quattro e mezza per andare a correre.
Non so perché gli avevo detto una cosa del genere.
Che era vero, che andavo a correre tutte le mattine, solo non mi svegliavo alle quattro e mezza del mattino.
Forse mi sembrava di rendermi più interessante, dicendo che mi svegliavo alle quattro e mezza del mattino, non so.
So però che lui, che aveva meno di quarant’anni, e si vestiva come si vestiva l’avvocato Gianni Agnelli quarant’anni fa, quando lui era appena nato, con delle cravatte larghe con sotto i maglioni, con dei completi di sartoria con sotto gli anfibi, con l’orologio sul polsino della camicia e tutto, gli dispiaceva soltanto di non avere i capelli grigi ma era confortato dal fatto che tra qualche anno ce li avrebbe avuti anche lui, ecco lui, secondo me, doveva aver sentito che Gianni Agnelli, tutte le mattine, tra le cinque e le sei, telefonava ai suoi collaboratori, tra i quali Giampiero Boniperti, presidente della Juventus, e li intratteneva in amabili conversazioni, e secondo me a lui, al mio avvocato, Matteo Bernazzoli, non sembrava vero di avere un cliente così coglione da inventarsi la balla che lui si svegliava tutte le mattine alle quattro e mezza per andare a correre e da dargli quindi la possibilità di telefonare impunemente a degli orari come le sei e quaranta del mattino e, dopo aver chiesto educatamente «Ti ho svegliato?», sentirsi rispondere «No» con un tono come per dire «No no no».

[Paolo Onori, Fare pochissimo, Milano, Marcos y Marcos 2017, pp. 57-59]

Comunicato

giovedì 16 Novembre 2017

È uscito questo romanzo di Paolo Onori, che si intitola Fare pochissimo, e questo Onori, in bandella, si presenta così: «Paolo Onori, nato a Parma nel 1963, abita a Casalecchio di Reno. Questo è il suo primo romanzo».
Adesso io, che mi chiamo Paolo Nori, e che sono nato anch’io a Parma nel 1963, e che abito anch’io a Casalecchio di Reno, e che di romanzi ne ho scritti una trentina, o forse di più, devo dire che il romanzo di Onori per il momento non l’ho mica letto e che non so se lo leggerò.
Mi hanno detto che è un libro più tradizionale, di quelli che scrivo io, con delle frasi più brevi, una sintassi più semplice, e mi hanno detto che lui, anche lui dice di non conoscermi e di non avermi mai letto e che, quando gli hanno fatto presente che abitiamo tutti e due a Casalecchio di Reno, mi hanno detto che lui ha risposto che Casalecchio di Reno è grande.
Ha ragione.
Anch’io lui non l’ho mai visto e magari non lo vedrò mai nella mia vita, e va benissimo così, ma c’è una cosa, che mi dà fastidio.
Mi dà fastidio quel che mi han detto che lui abbia detto ai promotori quando ha presentato il suo libro, quel Fare pochissimo che non è un grande titolo, per un romanzo d’esordio, secondo me, ma va bene, non è che tutti possono esordire con dei romanzi con dei titoli bellissimi come Le cose non sono le cose, ma non è questo quel che volevo dire, quel che volevo dire è che lui, questo Onori, quando ha presentato il suo primo romanzo ha chiesto ai promotori di aiutarlo a diventare lo scrittore più venduto di Casalecchio di Reno. Che a me, quando me l’han detto, non mi è sembrata una cosa gentile, devo dire.
Buongiorno.

Un giornalista

giovedì 9 Novembre 2017

Mi chiamavo Pietramellara, Marco Pietramellara, un nome assurdo, per uno che vuol fare il giornalista.
Uno che fa il giornalista dovrebbe avere almeno il buongusto di avere un nome minimamente memorabile, come Giorgio Bocca, o Enzo Biagi, o Piero Ottone, o Calindro Montanelli, io volevo fare il giornalista e mi chiamavo Pietramellara, Marco Pietramellara, ma che testa avevo?
Ma cosa può pensare di combinare, uno così?
O Marco Travaglio.
O Emilio Fede, al limite.
O Maurizio Costanzo.
O Paolo Mieli.
Ma Pietramellara.
Ma cosa volevo fare?
E fosse stato solo il nome.
Anche il modo, di lavorare.
Quel giorno qualsiasi del mese di maggio dell’anno 2017, per esempio, nella redazione di Emila Today, il vostro quotidiano preferito, mi ero dedicato a una delle forme di decoro della vita sociale che il noto sociologo canadese Erving Goffman aveva classificato come «Far finta di lavorare».
Ero fatto così, mi piaceva fare il contrario di quello che avrei dovuto fare.
Uno potrebbe pensare “Eri un ragazzo”, no.
No, non ero un ragazzo.
Avevo quarantotto anni, avevo.

[Paolo Onori, Fare pochissimo, Milano, Marcos y Marcos 2017, pp. 16-17 (è uscito oggi)]