domenica 15 Luglio 2018
Domenica 15 luglio,
a Milano,
al Paolo Pini,
in Via Ippocrate, 45,
alle 21 e 45
Noi e i governi 2.0
Iosif Stalin, Daniil Charms,
Iosif Brodskij, Bartolomeo Vanzetti e altri
(ingresso libero, necessaria prenotazione
02.66200646 olinda@olinda.org)
sabato 14 Luglio 2018
Sto finendo di scrivere il discorso che devo fare domani al Paolo Pini, e ho appena scritto che, può sembrare stranissimo, per me la letteratura russa è lo strumento per aprire tutte le scatole, che, non ci avevo mai pensato, secondo me è proprio così.
sabato 23 Giugno 2018
E mi viene in mente anche Bartolomeo Vanzetti, un italiano giustiziato, negli Stati Uniti, insieme al suo compagno Nicola Sacco, il 23 agosto del 1927 a mezzanotte e diciannove minuti, sulla sedia elettrica, perché accusato di aver ucciso un contabile, nel corso di una rapina, nonostante le prove evidenti della sua innocenza, tra le quali la confessione dell’autore della rapina, Celestino Madeiros, e mi vengono in mente le ultime parole che ha detto, Vanzetti, ai giudici delle contea di Norfolk, il 9 aprile del 1927, dopo che gli era stata notificata la condanna a morte, inflitta da una giuria presieduta da un giudice, che si chiama Webster Thayer, che aveva detto di Vanzetti e di Sacco che erano due anarchici bastardi, mi viene in mente Vanzetti, dicevo, e mi viene in mente quando, rispondendo alla domanda di rito «Bartolomeo Vanzetti, avete qualcosa da dichiarare?», Vanzetti disse di sì, che aveva ancora delle cose da dichiarare, e parlò per mezz’ora, e le ultime cose che disse furono queste: «Ho già detto che non soltanto non sono colpevole di questi delitti, ma non ho mai commesso un delitto in vita mia, non ho mai rubato, non ho mai ucciso, non ho mai versato una goccia di sangue, e ho lottato contro il delitto, ho lottato sacrificando anche me stesso per eliminare i delitti che la legge e la chiesa ammettono e santificano.
Questo è ciò che volevo dire. Non augurerei a un cane o a un serpente, alla più miserevole e sfortunata creatura della terra, ciò che ho avuto a soffrire per colpe che non ho commesso. Ma la mia convinzione è un’altra: che ho sofferto per colpe che ho effettivamente commesso. Sto soffrendo perché sono un anarchico, e in effetti io sono un anarchico; ho sofferto perché sono un italiano, e in effetti io sono un italiano; ho sofferto più per la mia famiglia e per i miei cari che per me stesso; ma sono tanto convinto di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte, e per due volte io potessi rinascere, vivrei di nuovo per fare esattamente ciò che ho fatto finora.
Ho finito. Grazie».
[Da Noi e i governi, l’ho letto oggi per radio, lo rileggo il 15 luglio a Milano al Paolo Pini]
lunedì 14 Maggio 2018
Il semiologo Jurij Lotman si è occupato delle biografie degli artefici della prima rivoluzione russa, nel dicembre del 1825, i decabristi, che erano tutti nobili, di nascita, e pronti a mettere in discussione i loro privilegi per ottenere delle garanzie costituzionali, e ha raccontato che uno di questi decabristi, Nikita Murav’ëv, una volta, da piccolo, era andato a un ballo, e alla mamma che gli aveva chiesto, «Nikita, come mai non balli?» lui aveva risposto «Ma gli antichi romani ballavano?», e lei aveva detto «Certo, quando erano piccoli». Allora Nikita era andato a ballare.
«Aveva ancora tante cose da imparare, – dice Lotman, – ma sapeva già che sarebbe stato un antico romano e un eroe».
E in quel libro lì, Fare pochissimo, Nesušestvujušij racconta che durante la seconda guerra mondiale il figlio di Stalin, Jakob Džugašvili, che combatteva nell’esercito sovietico era stato catturato dai nazisti, e quando i nazisti avevano proposto lo scambio tra il figlio di Stalin e il feldmaresciallo Paulus, che era stato catturato dai sovietici, Stalin aveva risposto «Non scambio un soldato con un generale».
E a chi, nel suo quartier generale (Stalin io me l’immagino sempre in un quartier generale), aveva fatto notare a Stalin «Ma è suo figlio», sembra che Stalin abbia risposto «Sono tutti miei figli».
Che, secondo Antonio Pennacchi, è una risposta da antico romano.
E, secondo Nesušestvujušij, è una risposta da padre della chiesa, forse un miracolo simile al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci; «Qui però ¬ dice Nesušestvujušij – è la moltiplicazione dei figli», ma era un’ipotesi, non era sicuro, Nesušestvujušij, se poteva valere, come miracolo.
E in quel libro lì, Fare pochissimo, Nesušestvujušij chiede a Pietramellara cosa ne pensa, se gli sembra un miracolo come si deve, e Pietramellara gli racconta la storia di un signore toscano che è stato nel comitato centrale del Partito Comunista Italiano, che è nato nel quarantacinque, questo signore, e che, quando era morto Stalin, aveva sette anni, e suo babbo, quando era morto Stalin, gli aveva messo il lutto al braccio e gli aveva detto “Tu oggi vai a scuola così, e se la maestra ti chiede cosa è successo tu ti alzi e, educatamente, dici: ‘È successo che è morto il compagno Stalin, il padre di tutti i lavoratori’”.
E quando era andato a scuola la maestra gli aveva davvero chiesto come mai aveva il lutto, che cos’era successo, e lui si era davvero alzato e aveva davvero detto, educatamente, «È successo che è morto il compagno Stalin, il padre di tutti i lavoratori».
E allora, quel bambino lì, aveva detto Pietramellara, quel giorno lì, il 5 maggio del 1953, l’avevano preso due bidelli uno da una parte uno dall’altra come se fossero i carabinieri che portavano via Pinocchio, e l’avevano portato a casa, e la moltiplicazione dei figli evidentemente, aveva detto Pietramellara, avveniva anche al di fuori dei sacri confini sovietici, e anche dopo morto, che era veramente una cosa un po’ miracolosa, secondo questo giornalista che non aveva voglia di fare niente.
[Da Noi e i governi 2.0]