Avere come scopo il miglioramento altrui
Criticheremo il Cielo quando ci arriveremo. Dubito che qualcuno di noi sarà soddisfatto della sistemazione; siamo diventati talmente critici.
Una volta si disse, a proposito di un eccellente giovane, che sembrava pensare che Dio onnipotente avesse creato l’universo soprattutto per sentire quello che lui ne avrebbe detto. Consciamente o inconsciamente, la maggior parte di noi tende a pensarla nello stesso modo. È un’epoca di società di mutuo soccorso: ottima idea quella di avere come scopo il miglioramento altrui, di parlamenti amatoriali, di società letterarie, di club di frequentatori di teatro.
La critica delle prime teatrali sembra essere morta da tempo, essendo lo studioso del dramma arrivato alla conclusione che le opere teatrali non meritano critica.
Ma nella mia giovinezza eravamo molto zelanti in questa attività. Andavamo a teatro, non tanto con l’egoistico desiderio di divertimento per la serata, quanto con il nobile scopo di elevare il teatro.
Forse abbiamo fatto bene, concedeteci di pensarlo, dovevamo farlo. Una cosa è certa, molte delle vecchie assurdità sono scomparse dal teatro, e la nostra critica sbrigativa può aver favorito l’evento. Una follia è spesso agevolata da una cura malaccorta.
In quei giorni il drammaturgo doveva fare i conti con il suo uditorio. Galleria e platea manifestavano interesse per il suo lavoro che ora non manifestano più. Ricordo di aver assistito, al vecchio Queen’s Theatre credo, alla produzione di un melodramma da ghiacciare il sangue. Alla protagonista era stato attribuito dall’autore uno spazio non necessario, secondo noi. Ogni volta che appariva sul palcoscenico, la donna parlava… Non poteva fare una piccola cosa, come maledire il cattivo, in meno di venti righe. Quando il protagonista le chiedeva se lo amava, si ergeva in piedi e faceva un discorso di almeno tre minuti, orologio alla mano. Il pubblico temeva di vederle aprire la bocca. Nel terzo atto, qualcuno la prese e la chiuse in una prigione sotterranea. Non era un uomo simpatico, in senso lato, ma lo considerammo l’uomo della provvidenza, e il teatro lo applaudì fragorosamente. Ci compiacemmo con noi stessi per esserci liberati di lei per il resto della serata. Poi uno sciocco di secondino fece la sua comparsa e lei lo supplicò, attraverso la grata, di farla uscire per pochi minuti. Il secondino, un uomo dal cuore tenero, ebbe un attimo di esitazione.
“Non farlo,” gridò dalla galleria uno zelante studioso del teatro; “è perfetto così. Tienila dentro!”
Il vecchio idiota non tenne in considerazione il nostro consiglio; discusse l’argomento tra sé e sé. “È solo una richiesta banale,” argomentò, “e la farà felice.”
“Sì, ma noi?” Replicò la stessa voce dalla galleria. “Non la conosci. Sei appena arrivato; noi l’abbiamo ascoltata per tutta la sera. Ora tace, lasciala stare.”
“Oh, fatemi uscire, solo per un momento!” Strillava la povera donna. “Devo dire qualcosa al mio bambino.”
“Scrivila su un pezzo di carta e passaglielo” suggerì una voce dalla platea. “Ci preoccuperemo di fargliela arrivare.”
“Terrò una madre lontana dal suo bambino morente?” Rifletté il secondino. “No, sarebbe disumano.”
“Non in questo caso,” insistette la voce dalla platea; “non in questo cosa. È stato l’eccesso di parole che ha fatto ammalare il bambino.”
Il secondino non volle seguire il nostro consiglio. Aprì la porta della cella tra l’esecrazione del pubblico. Ella parlò al bambino per circa cinque minuti, dopo di che egli morì.
“Ahimè è morto!” Gridò l’afflitta madre.
“Beato lui!” Fu la replica del pubblico.
[Jerome K. Jerome, A proposito di filtri d’amore, traduzione di Franca Brea, Fidenza, Mattioli 1885 2013, pp. 23-25]