Fisioterapia

venerdì 12 Ottobre 2018

Io, sono tanti anni che vado a fare fisioterapia, me l’ha consigliato l’ortopedico di farla, e ho girato parecchi fisioterapisti prima di trovare quello da cui vado ora, e con cui mi trovo bene. Uno dei primi da cui sono stato, era un fisioterapista giovane, avrà avuto, in quel periodo in cui sono stato da lui, grosso modo la mia età, quindi poco meno di trent’anni. La prima volta che sono stato a fare una seduta di fisioterapia da questo fisioterapista giovane, lui mi ha fatto un sacco di domande: voleva sapere se facevo sport, e, eventualmente, quale sport; se lavoravo o se studiavo, e cosa studiavo o che lavoro facevo. Voleva sapere quante ore al giorno stavo seduto e quante ore stavo in piedi. Mi aveva chiesto, anche, di vedere le lastre della mia schiena, io le avevo fatte alcune settimane prima e me le ero portate, me lo immaginavo che avrebbe voluto vederle. E poi, aveva voluto sapere quanto bevevo, e io gli avevo risposto: “Uno o due bicchieri la sera, più o meno”. E allora lui, il fisioterapista, m’aveva guardato, senza dire niente, e m’era sembrato che si aspettasse che aggiungessi qualcosa a quello che avevo già detto, e allora io avevo aggiunto: “Vabbè, quando esco con gli amici qualche birra, anche”. E lui aveva continuato a guardarmi, come se dovessi dire ancora qualcos’altro. Allora io avevo detto, ancora, proprio per essere sincero fino in fondo: “Il fine settimana mi prendo anche un amaro o due, qualche volta”. E poi, dopo che avevo confessato dell’amaro, lui aveva fatto una faccia, m’era sembrato a me, come per dire: “Ho capito”, e m’aveva detto: “Volevo sapere quanta acqua, bevi, al giorno”.

[Matteo Girardi, in Qualcosa n. 3, che presentiamo a Milano il 17 gennaio]

Delle cose

sabato 1 Settembre 2018

Quando studiavo all’università, a Roma, mi è capitato per un periodo di dare delle ripetizioni di grammatica italiana a un ragazzino, Michele mi sembra si chiamasse, che era alle scuole medie. Una volta, è successo che Michele mi ha chiesto: «Ma il plurale di “camicia” si scrive con la “i” o senza». Io gli ho risposto: «Con la “i”», e lui mi ha chiesto: «E perché?». Io non me lo ricordavo perché, e ho provato a cercare la risposta sul suo libro delle medie, e allora lui mi ha detto: «Però tu lo dovresti sapere senza libro». E io gli ho risposto: «Lo sai cosa, nella grammatica italiana sono tutte eccezioni».

[Matteo Girardi, Uno, in Qualcosa numero 3, esce a Mantova]

Dimmelo tu cos’è

domenica 28 Maggio 2017

C’era una canzone, quando ero bambino, una canzone di Antonello Venditti, s’intitolava Dimmelo tu cos’è, che io me la sentivo in continuazione. Di Dimmelo tu cos’è, a casa mia, avevamo addirittura l’audiocassetta originale (in quel periodo lì c’erano le audiocassette per sentire la musica), una delle poche audiocassette originali che avessimo in casa; le altre erano delle copie, avevano i titoli delle canzoni scritti con la penna sul cartoncino bianco che stava dentro alle custodie di plastica delle cassette vergini, quelle che si usavano per registrarci sopra le canzoni. Io me lo ricordo piuttosto bene quel cartoncino bianco delle cassette perché per me, scriverci sopra i titoli delle canzoni, è stata una cosa che mi sono portato appresso anche negli anni dopo, gli anni Novanta, quando sono diventato adolescente, e continuavo a scrivere i titoli delle canzoni su quel cartoncino bianco dopo aver registrato sulle cassette delle compilation, diciamo così, da regalare alle ragazze che mi piacevano (che poi, di solito, alle ragazze che mi piacevano, passavo più tempo a preparargli le cassette che a uscirci insieme).
Ma non è questo che m’interessava dire, quello che m’interessava dire è che la popolarità di Antonello Venditti, a casa mia, in quegli anni lì, negli anni Ottanta, era fuori discussione. E non è una cosa scontata, mi sembra. A casa di mia mamma, per esempio, quando lei era adolescente, non era mica così, lei ce lo raccontava spesso, a me e mio fratello. Nella famiglia di mia mamma, quando lei era adolescente, cioè negli anni Sessanta, non c’era un Antonello Venditti che fosse fuori discussione, ma c’era una specie di faida, tra mia mamma e i suoi fratelli, per decidere chi dovesse essere l’Antonello Venditti fuori discussione di casa loro: per il fratello di mia mamma, Giorgio, la musica degli anni Sessanta erano i Pink Floyd; per sua sorella, Emilia, la musica degli anni Sessanta era Woody Guthrie, che però mi sa negli anni Sessanta era già morto o ci mancava poco; mentre per mia mamma, la musica degli anni Sessanta, per mia mamma era Rita Pavone. Che ogni volta che mia mamma raccontava, davanti a degli amici o a dei conoscenti, questa cosa, che per lei la sua musica di quando era giovane era Rita Pavone, io mi vergognavo e pensavo: “Ma non poteva piacerle qualcun altro a mia mamma? Ma proprio Rita Pavone? Ma come si fa che a una ragazza degli anni Sessanta le piace Rita Pavone, ma dài”.
Comunque sia, il motivo per cui questa canzone di Antonello Venditti, Dimmelo tu cos’è, era così importante per me, in quel periodo della mia vita, è che aveva una seconda strofa che cominciava in una maniera, che io non riuscivo a spiegarmelo come potesse, una canzone, dire una cosa del genere. Alla prima strofa Venditti diceva: “Il nostro cane / non mi riconosce più” e va bene. Ma alla seconda strofa diceva: “Scopare bene, / scopare bene questa è la prima cosa”. E a me, che ero ancora bambino, mi imbarazzava che uno cantasse che scopare era la prima cosa della sua vita. E più la risentivo, questa canzone, più mi sembrava incredibile questa seconda strofa, e pensavo: “Magari mi sono sbagliato, magari ho sentito male, che non può essere che uno dice, in una canzone: ‘scopare bene’, e poi, addirittura insiste: ‘scopare bene è la prima cosa’”; mi sembrava una cosa da vergognarsi. Però nessuno diceva niente e allora, forse, ero io che non capivo, pensavo.
E quando ero da solo, questa canzone, me la risentivo per cercare di capire se diceva proprio “scopare bene” oppure magari un’altra cosa, e allora ero io a sbagliarmi, e tutto sarebbe stato più semplice. Quando invece mi capitava di sentirla insieme a qualcuno, e io lo sapevo che alla seconda strofa Venditti avrebbe detto “scopare bene”, cercavo sempre di fare in modo che la seconda strofa non si sentisse, che mi pareva avrebbe creato una situazione di disagio ascoltare Venditti che cantava “Scopare bene, scopare bene” come se niente fosse. E in quelle circostanze, in cui ero con qualcuno e c’era il rischio di ascoltare questa seconda strofa, cercavo di fermare lo stereo, oppure di parlarci sopra, oppure facevo qualche rumore forte per coprire almeno l’inizio della seconda strofa di Dimmelo tu cos’è, che poi, superato l’inizio, non c’erano grossi problemi.
Una volta però, capitò che mia mamma mettesse questa cassetta di Antonello Venditti mentre eravamo in macchina, d’estate, per andare al mare a Terracina, vicino a Roma. La nostra macchina di allora non aveva l’impianto stereo per sentire le cassette, ma mia mamma s’era portata lo stereo di casa, se lo teneva sulle gambe, e aveva messo proprio quella cassetta di Venditti in cui dentro c’era Dimmelo tu cos’è, e io, la prima cosa che avevo pensato quando avevo sentito la prima canzone della cassetta, che lo conoscevo bene l’ordine delle canzoni di quella cassetta, era che cosa avrei potuto fare per coprire la canzone quando Venditti avrebbe cantato: “Scopare bene, scopare bene”. E più si avvicinava il momento della seconda strofa di Dimmelo tu cos’è più mi agitavo.
Dopo un po’ che la cassetta andava, la prima cosa che provai a fare, provai a dire a mia mamma che non volevo più sentire la musica, che avevo male alla testa; solo che mio fratello, che era seduto di fianco a me, nel sedile dietro della macchina, aveva cominciato pure lui a lamentarsi, che invece lui la musica la voleva sentire. Io, allora, avevo pensato che continuando così, a litigare con lui, magari, sarei riuscito a coprire, con le urla, quella seconda strofa di Dimmelo tu cos’è. Però poi era intervenuta mia mamma che aveva detto di fare silenzio perché papà stava guidando e non ci stava capendo niente e aveva pure sbagliato strada. E in quel momento lì, mentre mia mamma diceva di fare silenzio, lo stereo continuava a andare e Dimmelo tu cos’è era appena cominciata, e mio fratello sembrava avesse per davvero deciso di non urlare più e di non lamentarsi più, a me non mi rimase che colpirlo, a mio fratello, con un pugno in faccia, proprio poco prima dell’inizio della seconda strofa di Dimmelo tu cos’è, quella in cui Venditti canta “Scopare bene”.
Che mio fratello, lì per lì, ci rimase, a guardarmi, con una faccia come se volesse dire: “Così, a tradimento? Ma non ti vergogni?”. Poi, con le lacrime agli occhi, mi saltò addosso e cominciò a picchiarmi. E mentre mio papà, che stava guidando, cercava un posto per accostare e separarci, e mia mamma urlava che lei aveva fallito come madre se due fratelli come noi non solo non si volevano bene ma anzi si picchiavano addirittura, io mi difendevo dalle botte di mio fratello, e sentivo che la seconda strofa di Dimmelo tu cos’è stava finendo, e finalmente ero sereno.

[Di Matteo Girardi, per Qualcosa; se qualcuno lo vuole rileggere, si può rileggere, uguale, qui:clic]

Sei brutte figure

venerdì 17 Marzo 2017

To soréla

clic

Due domande da un’intervista

martedì 22 Marzo 2016

[Su una rivista che si chiama Leggere: tutti è uscita un’intervista che mi ha fatto Matteo Girardi, che è uno di quelli che hanno scritto il Repertorio dei matti della città di Roma (di fianco all’intervista, mi dice Matteo, c’era una mia foto e sotto c’era scritto Paolo Neri, che son cose bellissime, quando succedono)]

Nori cos’è il giornalismo disinformato?
L’idea è che per raccontare una cosa non bisogna essere degli esperti, anzi, più uno è esperto in qualcosa e meno la vede, meno ne rimane colpito ed è capace di raccontarla, secondo Baistrocchi. L’altro giorno è morto David Bowie e io ero a Milano, sul treno, e davanti a me c’erano due ragazzi, un ragazzo e una ragazza, e la ragazza ha detto: Hai sentito chi è morto? E lui le ha chiesto: No, chi è morto? E lei: Quel cantante famosissimo. E lui le ha detto: Bob Dylan? E lei: Sì. Questa è una notizia da giornalista disinformato. L’impressione che ho è che Baistrocchi lavori su questa parte qui, che viene considerata poco significativa.

Baistrocchi, oltre a fare il giornalista disinformato, tiene dei corsi sul giornalismo disinformato in cui dice ai suoi allievi che oggi non basta più scrivere un diario, ci vuole un minutario.

Questa cosa la dice Chlebnikov, che ha vissuto un passaggio simile al nostro, quello tra Ottocento e Novecento. Perché, nel corso della giornata, uno attraversa talmente tanti di quegli stati d’animo che una giornata è fin troppo. Un minuto è già un universo, con le proprie regole, che poi tre ore dopo è cambiato completamente tutto. A noi questa cosa ci succede ancora di più che cent’anni fa, tant’è vero che Baistrocchi, quando cita Schopenhauer, e pensa al primo sguardo che si son scambiati con la madre di sua figlia, dice: Io, se fossi stato bravo, in quel momento lì avrei sentito tutti i rumori, i percorsi della nostra vita che cambiavano. Quello è stato un momento decisivo e Baistrocchi ai suoi allievi dice: Voi dovete andare in quella direzione lì. Non raccontare un’epoca, non cogliere l’epoca, ma cogliere i secondi, raccontare quei momenti che son forse i più significativi. E anche lui non racconta della rivoluzione russa o francese, ma racconta di uno sguardo con una ragazza, che però, nel contesto della sua vita, è stato un momento rivoluzionario.