Come dire?
Ho appena letto un libretto di Mary McCarty che si intitola America la bella (ed. Ripostes, 2004, tr. it. N. Chiaromonte). A un certo punto c’è scritto:
L’immigrante, o l’Americano povero, compravano una vasca non tanto perché volessero fare un bagno, ma perché volevano essere in condizione di farlo. E questo è ancora vero sotto molti riguardi al giorno d’oggi: i beni materiali, quando sono veramente desiderati, non lo sono tanto di per sé quanto come simboli di uno stato ideale di libertà, di fratellanza e d’indipendenza. L’idea di avere tutto quello che ha il vicino è certo una traduzione volgare dell’ideale di Jefferson, ma è anche una specie di dichiarazione dei diritti dell’uomo particolarmente irrealizzabile e utopista. Per un europeo, un fatto è un fatto. Per noi Americani, la realtà, dato che abbia un senso, non è che apparenza simbolica. Siamo una nazione di venti milioni di stanze da bagno, con un umanista in ogni vasca. Di uno di questi umanisti ho sentito spesso parlare al Capo Cod: diventato ricco, s’era fatto installare, in una sua marmorea stanza da bagno, due, come dire? sedili di decenza, l’uno accanto all’altro: memoria ancestrale biposto della sua infanzia. Quello era un chiaro esempio d’americanismo, ospitale, gregario e impratico: ricerca accanita di una teorica perfezione. Il sogno di vittoria sulla povertà perseguito da quell’uomo era volgare o nobile? Avidità materiale o esigenza spirituale? In ogni caso, è difficile immaginare che fosse un uomo felice, e anche in questo egli appare tipicamente Americano: giacché l’eguaglianza nella radio, nel cinema e nella macchina per lavare ha reso gli Americani tristi, rammentando loro di continuo un’altra eguaglianza di cui queste cose non avrebbero dovuto essere che i simboli.