Adesso
A Vienna lo aspettava la fidanzata, figlia del fabbricante di matite Hartmann. Il tenente non sapeva più nulla di lei, se non che era bella, brava, ricca e bionda. Quei quattro attributi l’avevano abilitata a diventare la sua fidanzata.
Lei gli spediva al fronte lettere e pasticci di fegato, qualche volta un fiore secco da Heilgenkreuz. Lui le scriveva ogni settimana su carta da lettera militare azzurro-scuro, con la matita copiativa inumidita, lettere brevi, concisi resoconti della situazione, notizie.
Da quando era fuggito dal campo non aveva più saputo nulla di lei. Che gli fosse fedele e lo aspettasse, non dubitava.
Che lo aspettasse fino al suo ritorno, non dubitava. Ma che avrebbe smesso di amarlo quando, ritornato, le fosse stato davanti, gli pareva altrettanto certo. Quando si erano fidanzati, lui era un ufficiale. Il grande dolore del mondo lo rendeva, allora, più bello, la vicinanza della morte lo faceva più grande, la sacralità di un defunto circondava l’uomo vivo, la croce sul petto richiamava la croce su un tumulo. Se poi si contava su un lieto fine, dopo la marcia trionfale delle truppe vittoriose sulla Ringstrasse, c’era da aspettarsi il colletto dorato da maggiore, la scuola di guerra e finalmente il grado di generale, il tutto avvolto nel tenero suono dei tamburi della marcia di Radetzky.
Ma adesso Franz Tunda era un giovane senza nome, senza credito, senza rango, senza titolo, senza soldi e senza professione, non aveva né patria né diritti.
[Joseph Roth, Fuga senza fine, traduzione di Maria Grazia Paci Manucci, Milano, Adelphi 2002, pp. 14-15]