La storia della minestra

lunedì 8 Gennaio 2018

Bobrov andava per strada e pensava: come mai, in una minestra, a versarci della sabbia, quella minestra diventa cattiva.
All’improvviso ha visto che in strada c’era seduta una bambina molto piccola che aveva in mano un verme e piangeva forte.
– Perché piangi? – ha chiesto Bobrov alla bambina piccola.
– Non piango, canto, – ha detto la bambina piccola.
– E perché canti così? – ha chiesto Bobrov.
– Perché così il verme è allegro, – ha detto la bambina, – e mi chiamo Nataša.
– Ah, è così, – si è stupito Bobrov.
– Sì, è così, – ha detto la bambina, – arrivederci –. Si è alzata, è montata sulla bicicletta e se ne è andata.
«Così piccola, e va già in bicicletta», ha pensato Bobrov.

[Daniil Charms, Disastri, Milano, Marcos y Marcos 2011]

Sempre disastri

venerdì 5 Gennaio 2018

A me interessano solo le «scemenze»; solo quello che non ha nessun senso pratico. Mi interessa la vita solo nelle sue manifestazioni assurde.
Eroismo, pathos, audacia, moralità, pulizia, etica, commozione e fervore sono parole e sentimenti che non posso sopportare.
Ma capisco perfettamente e apprezzo: entusiasmo e ammirazione, ispirazione e disperazione, passione e riservatezza, dissolutezza e castità, tristezza e dolore, felicità e riso.

[Daniil Charms, Disastri, Milano, Marcos y Marcos 2011]

Comunque

martedì 2 Gennaio 2018

Io comunque sono una figura stupefacente, anche se non mi piace molto parlarne.

[Daniil Charms, Disastri, Milano, Marcos y Marcos 2011, p. 146]

Io non capisco perché

giovedì 28 Dicembre 2017

Io non capisco perché tutti pensano che sono un genio: secondo me non sono, un genio. Ieri gli ho detto: Ascoltate! Ma che genio sarei? E loro mi han detto: Un genio. E io a loro Ma un genio come? E loro non m’han detto come m’han detto solo che sono un genio che sono un genio. Ma secondo me io non sono, un genio.
Dovunque compaio, adesso tutti cominciano a sussurrare a indicarmi «Ben ma, che roba è», dico io. E loro non vogliono sentire ragioni ho sempre paura che da un momento all’altro mi prendono mi portano in trionfo.

[Daniil Charms, Disastri, Milano, Marcos y Marcos 2011, p. 93]

Quando una cosa non mi piace

giovedì 21 Dicembre 2017

Io, quando una cosa non mi piace, non so, un libro, o una canzone, o un film di cui parlano tutti e che tutti dicono che sono un libro, o una canzone, o un film bellissimi ecco, io, se li leggo, o li ascolto, o li guardo e poi non mi piacciono, io devo dire che quando poi lo dico, o lo penso, «Non mi è piaciuto», io c’è una specie di piccola, infantile, stupida soddisfazione.
Come se fosse un pregio, il fatto che quel libro, o quella canzone, o quel film, non mi piacessero, come se indicasse una certa mia superiorità rispetto alla massa che, essendo massa, è della gente che han delle teste che non le mangiano neanche i maiali: io un po’ la penso così, quando dico, con una punta di soddisfazione «Non mi è piaciuto».
Invece, con tutta la mia misantropia, che un po’ misantropo forse lo sono, io devo dire che quando una persona non mi piace, non so come dire, un po’ mi dispiace.
Come se fosse una sconfitta.
Come se fosse un po’ colpa mia.
Non so se si capisce.
Be’, a parte il sindaco di Castelfranco di Reno, che lui, poverino, ma anche Enrica Spadoni in Coltellini, secondo me, non era colpa mia, era proprio lei, che era Enrica Spadoni in Coltellini.
Che poi non è che mi piacesse proprio per niente, a dire il vero, se devo dire la verità.

[Paolo Onori, Fare pochissimo, Milano, Marcos y Marcos 2017, pp. 47-48]

Troppo complicata

venerdì 8 Dicembre 2017

La mail che avevo mandato a Maritoni diceva così:

Buongiorno Giacomo Maritoni; per il mio gusto personale, la cosa che mi ha mandato è troppo complicata. Le copio qua sotto una cosa che mi piace, è la descrizione di un gatto ed è stata pubblicata dal quotidiano francese Le Figaro:

Il gatto è un animale che ha due zampe davanti, due zampe dietro, due zampe sul lato destro e due zampe sul lato sinistro.
Le zampe davanti gli servono per correre, le zampe dietro gli servono da freno. Il gatto ha una coda che segue il suo corpo. Essa finisce improvvisamente.
Egli ha dei peli sotto il naso, rigidi come dei fili di ferro. È per questo che egli è nell’ordine dei «filini». Ogni anno il gatto desidera avere dei piccoli. Allora li fa: è a questo momento che diventa una gatta.

L’ha scritta, negli anni cinquanta, una bambina francese di nove anni. Il mio gusto, ci tengo a sottolinearlo, non vale niente, è il mio, e basta. Ma nel suo caso c’è anche un altro problema del quale le parlo adesso al telefono.
Stia bene 
Marco Pietramellara

[Paolo Onori, Fare pochissimo, Milano, Marcos y Marcos 2017, pp. 154-155]

Gli altri

martedì 5 Dicembre 2017

Sull’autobus ero riuscito a sedermi davanti, vicino all’autista, sono sempre contento, io, quando riesco a sedermi, sugli autobus, e mi ero messo a leggere, mi metto sempre a leggere, io, quando sono seduto sull’autobus, e di solito leggo dei romanzi, che leggere dei romanzi, per me, quando sono sugli autobus, o sui treni, è come la macchina del tempo, arrivo che non mi accorgo della noia del viaggio, o del fastidio dei passeggeri che io, devo dire, se guardo oggettivamente ai miei sentimenti, la gente mi dà un po’ fastidio, a me.
Gli altri, non io, io vado bene, son gli altri, che non me li spiego, e gli altri, quando sono su un autobus, o su un treno, diventano i passeggeri che io, quando sono su un treno, o su un autobus, che qualcuno si viene a sedere vicino a me, io, la cosa che mi viene da pensare, “Ma proprio vicino a me, doveva venirsi a sedere, con tutti i posti che c’erano?”.

[Paolo Onori, Fare pochissimo, Milano, Marcos y Marcos 2017, p. 45]

Se no avrei potuto leggere il giornale

lunedì 27 Novembre 2017

Poi mi ero seduto mi ero messo a aspettare.
Purtroppo quel giorno lì era sabato, non avevo il giornale, se no avrei potuto leggere il giornale.
Avevo cercato tra i libri della libreria, ne avevo trovato uno che avevo già letto ma che avrei riletto volentieri.
Si intitolava Il libro dei fincipit; il fincipit era una pratica che consisteva nel prendere l’inizio di un libro o di una poesia o di una canzone famosa e nell’immaginare un seguito repentino e disastroso che avrebbe provocato la fine immediata di quell’opera o di quella canzone.
E mi ero seduto lì, sulla scaletta, e avevo letto: «Ei fu. Siccome immobile, pagava l’ICI; Chiamatemi Ismaele. Che a me vede il numero sul cellulare e non risponde; Non so che viso avesse, neppure come si chiamava mi spieghi come facevo a andarlo a prendere in stazione?; C’è una strana espressione nei tuoi occhi:
non ti sarai mica cagato addosso?; Alla fiera dell’Est, per due soldi, un topolino mio padre comprò. Ma io l’avevo già letto; Una rotonda sul mare, è mia sorella che nuota; Respiri piano per non far rumore,
o sei proprio morta?; Tanto gentile e tanto onesta pare,
invece non rilascia mai fattura; Meriggiare pallido ‘a soreta; “Chiamatemi Ismaele”. “Ismaeleeee!”; E se domani io non potessi rivedere te, fissiamo per dopodomani?; Una canzone per te; non te l’aspettavi, eh? Invece, eccola qua: però, ti avviso, fa cagare; Tutti ormai lo chiamavano Don Ciccio. Anche se il suo vero nome era Ismaele; Ho visto le menti migliori della mia generazione e ho pensato “Ah, andiam bene. Ah, andiam proprio bene, andiamo”».
Ero arrivato qui, che mi era suonato il telefono.

[Paolo Onori, Fare pochissimo, Milano, Marcos y Marcos 2017, pp. 212-213]

La partecipazione

venerdì 24 Novembre 2017

Non mi piaceva, la mia collega, Enrica Spadoni in Coltellini.
E non mi piaceva, il quotidiano per cui lavoravamo, Emilia Today (il vostro quotidiano preferito).
E non mi piaceva, la televisione alla quale collaboravamo, Emilia Together (la vostra televisione preferita).
E non mi piaceva, il mio mestiere, chissà perché lo facevo.
Ogni tanto dovevo scrivere delle cose, non so, una volta mi avevano chiesto di dire che cos’era la partecipazione, e io, la mia prima reazione era stata «Cosa vuoi che sappia io della partecipazione?».
Poi, ero in cucina, nella mia casa, non nella casa di Nilde, NELLA MIA CASA, e mi era venuto da pensare a una cosa che mi succedeva tutti gli anni a un festival di letteratura slava, in Cecoslovacchia quando mi invitavano ai festival di letteratura slava, tanto tempo prima, che c’era una piazza, centinaia di persone che, mossi dalla voce di qualcuno che era in piedi su un palco, cominciavano a respirare insieme, come se fossero un’unica bestia.
E io, che ero lì con loro, non ero più io, ero una parte di quella bestia.
Non so cos’era, aveva qualcosa, è difficile usare la parola magia, nel nostro secolo così poco avventuroso, ma era una specie di magia.
Mi succede ancora con mia figlia e con Nilde: son dei momenti, ce ne son tre o quattro all’anno, chissà cosa succede, chissà cos’è che li scatena, ma noi, in quei momenti lì, non siamo più tre, siamo un’unica bestia, e è una cosa, non so come dire, commovente, avevo pensato lì in piedi, nel bianco della mia cucina, più che in piedi in punta, di piedi, trattenendo il fiato, era stato un pensiero che era si sviluppato dall’inizio alla fine e intanto che lo pensavo io non mi vedevo ma se mi fossi guardato, probabilmente avrei visto che ero in punta di piedi e che tenevo le labbra come a pronunciare una u, come se fossi un barista.

[Paolo Onori, Fare pochissimo, Milano, Marcos y Marcos 2017, pp. 31-32]

Pàpa

mercoledì 22 Novembre 2017

Io, devo confessare, quando ero piccolo, fino a quando non avevo compiuto ventisette anni, io non ci avevo mai pensato, di fare una bambina.
Il primo momento che mi era venuto in mente di fare una bambina, era stato per via di una parola, la parola papa, che non c’entrava niente con la religione cattolica.
Che c’era stato un momento, tanti anni prima, che ero uno che studiava.
Cioè ero stato studente, come tutti.
Avevo fatto l’università, come tutti.
Avevo studiato lingua e letteratura russa, come tutti.
Cioè come tutti, come tutti quelli che hanno studiato lingua e letteratura russa.
E come tutti quelli che hanno studiato lingua e letteratura russa, ero andato in Russia a abitare, per un po’.
E ero andato a abitare in un appartamento di periferia, in uno di quei condomini di diciassette piani che c’erano allora alla periferia di Mosca e che immagino ci siano ancora.
E, all’epoca fumavo, e nell’appartamento dove abitavo, abitavo in casa di una famiglia di russi, e i russi con i quali abitavo non volevano che si fumasse in casa, e allora a fumare io andavo sul pianerottolo.
Che era il pianerottolo di un condominio della periferia di Mosca, al tredicesimo di diciassette piani e all’epoca, a Mosca, nei condomini di periferia, i pianerottoli non erano posti molto belli, c’era anche una cosa che si chiamava musoroprovòd.
Condotto di scarico dell’immondizia, significa, che era un condotto che si faceva tutti e diciassette i piani e mandava un odore suo particolare che era un odore che non c’era un gran buon odore, nel pianerottolo dov’ero io, a metà degli anni novanta, in un condominio della periferia di Mosca, dove fumavo delle sigarette bulgare che non erano delle gran sigarette, devo dire, e una sera, ero lì, sul pianerottolo, con intorno l’odore del condotto di scarico dell’immondizia, un’immondizia sovietica, con un odore tutto suo particolare, e avevo nella testa delle domande del tipo “Ma perché sto fumando delle sigarette bulgare? Ma non facevo prima a portarmele dall’Italia?”, e si era aperta la porta dell’ascensore e era uscito dall’ascensore un signore con il suo cappotto grigiofumo, il suo cappello di pelo grigiofumo, la sua borsa di fintapelle grigiofumo, i suoi resti di neve grigiofumo sulle spalle, era aprile, nevicava, erano le sei di sera, e questo burocrate sovietico di mezz’età tornava dall’ufficio, probabilmente, e aveva un fascino pari a niente, uno dei pochissimi russi con un carisma nullo che avevo incontrato fino a quel giorno, era tipo il mio dodicesimo giorno in Russia, e lui era uscito dall’ascensore, era arrivato alla porta del suo appartamento, l’aveva aperta con la sua chiave e, da dentro, era venuta la voce di un bambino che diceva «Pàpa!».
Che significa Babbo.
E aveva un modo così bello, così amorevole, era così contento, che fosse tornato suo babbo, che io mi ricordo che lì, il momento forse meno interessante, più basso del mio primo viaggio in Russia, era stato trasformato, da una parola, nel momento in cui, per la prima volta nella mia vita, avevo pensato che forse poteva valere la pena di fare un bambino.
O una bambina.
Stàsùdadòss.
Allora non lo sapevo.
Una bambina.
Sarebbe poi stata.
Stàsùdadòss.

[Paolo Onori, Fare pochissimo, Milano, Marcos y Marcos 2017, pp. 69-70]