venerdì 10 Agosto 2018
– Andatevene, canaglie! – diceva con voce sorda. Tra i peli folti della faccia luccicavano i denti, grossi e gialli. Il gruppo si scioglieva impaurito, urlandogli contro qualche insulto.
– Canaglie! – diceva ormai alle loro spalle, e gli occhi gli rilucevano di uno scherno tagliente come una lesina. Poi, tenendo la testa in atteggiamento di sfida li seguiva e li provocava:
– Su, chi vuole morire?
Ma nessuno ne aveva voglia.
Parlava poco, e «canaglia» era la sua parola preferita. Così chiamava i capi della fabbrica e la polizia, così chiamava la moglie.
– Non vedi, canaglia, che ho i calzoni rotti?
[Maksim Gor’kij, La madre, traduzione di Luciana Montagnani, Roma, Editori Riuniti 1980, p. 8]
venerdì 8 Maggio 2015
Nel libro Il corsivo è mio, di Nina Berberova, c’è la cartina della villa di Sorrento con l’indicazione della stanza dove dormiva la Berberova e da un certo punto di vista è bellissimo, pensare che sia così importante, il posto dove si dorme.
sabato 13 Giugno 2009
Incollo qua sotto un pezzetto su tre cose russe tradotte quest’anno che esce oggi sul manifesto (è un po’ lunghino).
Tre cose russe
In un articolo del 1924, Il presente letterario, Jurij Tynjanov diceva che, ai suoi tempi, nel 1924, in Unione Sovietica, gli scrittori scrivevano senza gioia, come se facessero rotolar dei massi. Con ancora meno gioia, secondo Tinjanov, gli editori trasportavano quei massi fino alla tipografia e quegli stessi massi, poi, i lettori li guardavano con assoluta indifferenza.
I lettori, scriveva Tynjanov, si trascinano fino alle librerie e chiedono: E poi, cosa c’è? E quando gli danno questo poi, si accorgono che questo poi c’era già stato. Perché gli editori a lui contemporanei, secondo Tynjanov, non avevan fatto quasi altro, in quegli anni, che pubblicare Tarzan, il figlio di Tarzan, la moglie di Tarzan, il suo bue e il suo asino, e, con l’aiuto di Erenburg, avevano quasi convinto il lettore che questo Tarzan fosse, in sostanza, la letteratura russa. Continua a leggere »
lunedì 11 Maggio 2009
Studiava con scarso profitto, arrivava a scuola pieno di paura che lo picchiassero e ne usciva maltrattato e rancoroso. Il suo terrore di essere trattato male era talmente evidente che suscitava in tutti l’irrefrenabile desiderio di prenderlo a cazzotti.
[Maksim Gor’kij, Storia di un uomo inutile, tr. it. Francesca Biagini, prefazione Alessandro Barbero, Torino, Utet 2009, p. 5]