venerdì 18 Novembre 2016
le parole trascritte da un autore anonimo in un glossario bengali-inglese trovato fra i resti di un’imbarcazione approdata a Lampedusa: fiume, stelle, cielo, mare, mondo, poeta, attore, scrivere, conoscenza
[Monica Massari, La maledizione di essere niente, in Ma il mondo, non era di tutti?, Milano, Marcos y Marcos 2016, p. 107]
mercoledì 16 Marzo 2016
Scrivo questa nota la notte del 7 marzo 2016, nell’ottantesimo anniversario della nascita di Georges Perec, che subito dopo la seconda guerra mondiale era un bambino senza ricordi d’infanzia. «Non ho ricordi d’infanzia, – scrive. – Fino ai dodici anni, più o meno, la mia storia occupa qualche riga: ho perduto mio padre a quattro anni, mia madre a sei; ho passato la guerra in varie pensioni di Villard-de-Lans. Nel 1945, la sorella di mio padre e suo marito mi hanno adottato. Questa assenza di storia mi ha, a lungo, rassicurato: la sua secchezza oggettiva, la sua apparente evidenza, la sua innocenza mi proteggevano, ma da cosa mi proteggevano, se non esattamente dalla mia storia, dalla mia storia vissuta, dalla mia storia vera, dalla mia storia di me che non ero, si può supporre, né secco, né oggettivo, né apparentemente evidente, né evidentemente innocente?». Perec è nato in Francia, ma non è francese. «Ho un nome francese, – scrive, – Georges, un cognome francese o quasi: Perec. La differenza è irrilevante: non c’è accento acuto sulla prima e del mio cognome, perché Perec è la grafia polacca di Peretz. Se fossi nato in Polonia, mi sarei chiamato, mettiamo, Mordechai Perec, e tutti avrebbero saputo che ero ebreo. Ma non sono nato in Polonia, per mia fortuna, e ho un nome quasi bretone, che tutti scrivono Pérec o Perrec: il mio cognome non si scrive esattamente come si pronuncia. A questa contraddizione insignificante si associa il sentimento tenue, ma insistente, insidioso, ineluttabile, di essere in un certo modo straniero rispetto a qualcosa di me stesso, di essere “diverso”, ma non tanto diverso dagli “altri” quanto diverso dai “miei”; non parlo la lingua che parlavano i miei genitori, non condivido nessuno dei ricordi che essi poterono avere. Qualcosa che era loro, che faceva di loro quel che erano, la loro storia, la loro cultura, la loro speranza, quel qualcosa non mi è stato tramandato». Perec è cresciuto in un mondo, l’Europa occidentale del dopoguerra, che a me sembra l’abbia protetto dalla sua solitudine e abbia avuto interesse a tramandare la sua storia. Una della domande che credo salteranno fuori da questa antologia è: il nostro mondo, è in grado di proteggere qualcuno dalla sua solitudine? Gli interessa tramandare le storie dei Perec di oggi?
Cioè: ha senso, oggi, in Italia, l’articolo primo della dichiarazione dei diritti dell’uomo, quello che dice che «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Sono tutti dotati di ragione e coscienza e devono agire gli uni con gli altri con uno spirito di fraternità»?
P. N.
Casalecchio di Reno, 7 marzo 2015