18 novembre – Cagliari
Venerdì 18 novembre,
alle 18 e 45,
a Cagliari,
dentro una cosa che si chiama
Storie in trasformazione
(e che comincia alle 17 e c’è il programma qui: clic)
leggo delle cose intorno a
Ma il mondo, non era di tutti?
Venerdì 18 novembre,
alle 18 e 45,
a Cagliari,
dentro una cosa che si chiama
Storie in trasformazione
(e che comincia alle 17 e c’è il programma qui: clic)
leggo delle cose intorno a
Ma il mondo, non era di tutti?
Dopo stasera, dopo che ho presentato Ma il mondo, non era di tutti, mi è venuto in mente che come epigrafe al libro ci sarebbe stata forse bene una poesia di Francesca Genti che si intitola «Illuminazione davanti al banco dei surgelati» e che dice «Anche la sofferenza / ha la sua data di scadenza».
Mercoledì 16 novembre,
a Bologna,
alle 18,
alla libreria Ambasciatori,
in via degli Orefici 19,
Giuseppe Palumbo,
Francesca Genti e Paolo Nori
presentano
Ma il mondo, non era di tutti?
(Marcos y Marcos)
parola, modo mio
di pregare senza dio
[Francesca Genti, Preghiere del posto nel mondo, in Ma il mondo, non era di tutti?, Milano, Marcos y Marcos 2016, p. 77]
Così da quel punto camminai con i miei amici tre giorni, continua la sua storia Hudson. Vedemmo la luna e pensammo che fossero luci, così seguimmo la luna […] Così noi seguimmo la luna, se vedi che c’è qualche luce, poi sai dove andare […] Così noi seguimmo la luna, camminavamo, ma non vedevamo niente, non c’era niente, pensavamo fossero luci e invece era la luna…
[Monica Massari, La maledizione di essere niente, in Ma il mondo, non era di tutti?, Milano, Marcos y Marcos 2016, p. 107]
Nei libri russi, invece di Prefazione, scrivono quasi sempre Al posto di una prefazione allora mi è venuta voglia di scrivere così anch’io, per imitazione, e questa cosa allora è meglio se non la chiamiamo prefazione chiamiamola nota.
Venerdì 13 maggio,
a Pozzallo,
alle 19 e 30,
con Federico Amico
parliamo
dell’antologia
Ma il mondo, non era di tutti?
che esce per Marcos y Marcos
in settembre.
[Ma il mondo, non era di tutti? è un’antologia voluta dall’Arci Nazionale che uscirà per Marcos y Marcos e che abbiamo chiesto di comporre a Emmanuela Carbè, Francesca Genti, Carlo Lucarelli, Monica Massari, Giuseppe Palumbo, Antonio Pascale, Gipi e Christian Raimo. Ne parliamo il 13 maggio a Pozzallo con Federico Amico e ne abbiamo parlato in questa intervista a Donatella Coccoli che è sul sito di Left, anche]
Paolo Nori ci può parlare di questa antologia da comporre? Qual è il filo che la percorre, pur nella diversità delle voci? E come sono stati “scelti” gli autori?
L’antologia uscirà a settembre ed è, come dice lei, da comporre, vedremo come sarà quando ci sarà, sono molto curioso. Abbiamo scelto degli autori che ci sembrano molto bravi (un criterio poco originale, mi rendo conto).
Le parole di uno scrittore contro chi costruisce muri e barriere, contro chi costringe ad attraversare i mari e morire. Parole che difendono le altre parole scritte nelle costituzioni e nelle dichiarazioni dei diritti dell’uomo, conquistate dopo guerre e sofferenze. Qual è la forza (o il senso?) della parola oggi di fronte alla forza della ragion di stato e della paura?
Qual è la forza della parola è una bella domanda. In letteratura, io ho l’impressione che la letteratura abbia una forza che equivale alla forza di gravità. Ci si può opporre alla forza di gravità? Io non ci riesco.
Lei nella prefazione parla di Georges Perec, della sua vita e dell’”assenza di storia”. Oggi vale per i migranti, per gli stranieri, ma vale anche per noi, persi in un presente di solitudine?
Monica Masssari, in un saggio del 2013, riporta la testimonianza di un ragazzo ghanese, che ha dovuto attraversare il deserto per arrivare in Libia, e che è stato abbandonato dalla guida che aveva pagato, e che ha dovuto, coi suoi compagni di viaggio, proseguire da solo, a lume di naso, orientandosi con i cadaveri, se c’era un cadavere voleva dire che c’era una strada, e a un certo punto, di notte, avevan visto la luna e avevan pensato che, siccome c’era una luce, fossero delle case, e avevan seguito la luce della luna. Mi sembra che, al confronto, il nostro presente di solitudine sia abbastanza desiderabile.
Gli uomini nascono liberi e uguali, lei ricorda citando la Dichiarazione universale del 1948. E parla anche di fraternità. Le faccio la domanda che lei si fa nella prefazione: ha ancora senso tutto questo in Italia? Cosa vive lei attorno a sé? Cosa sente, anche quando va a presentare i suoi libri o nelle letture pubbliche ?
La dichiarazione dei diritti dell’uomo dice che: «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Sono tutti dotati di ragione e coscienza e devono agire gli uni con gli altri con uno spirito di fraternità». Quando leggo queste cose mi viene in mente quel che diceva uno scrittore russo che si chiama Aleksandr Zinov’ev in un libro appena ripubblicato da Adelphi, Cime abissali, quando diceva che tutto quello che ufficiale, è falso. Io sono di Parma, e a Parma si dice «essere falsi come una lapide». Ecco questa dichiarazione dei diritti dell’uomo è come se fosse scolpita nel marmo, ma è vera? L’idea che siamo stati così civili da aver costruito un mondo dove tutti sono uguali è un’idea vera? L’antologia credo si muoverà in questa direzione.
Lei ha scritto il manuale del giornalismo disinformato. Cosa significa? E quali parole bisogna usare per informare, cioè “formare in”, cioè far conoscere?
Il Manuale pratico di giornalismo disinformato è un romanzo, e io non sono capace di spiegare, in due righe, cosa significa un romanzo. Né credo che la letteratura serva per informare. Per informare ci sono altri strumenti, la letteratura mi sembra faccia un giro diverso, secondo Šklovskij rende il mondo più mondo, serve per far sì che la pietra sia pietra, e una cosa simile la dice Agamben, quando dice che la letteratura (o l’arte) non serve per rendere visibile l’invisibile ma per rendere visibile il visibile.
E quando penso a questa cosa mi viene in mente l’esempio di quegli antropologi bolognesi che qualche decennio fa avevano invitato un cantastorie senegalese, uno che scriveva delle storie e poi le metteva in musica e le cantava ai suoi concittadini, l’avevano invitato a Bologna e gli avevano detto di osservare i bolognesi e di scrivere poi una canzone su di loro da cantare ai senegalesi e lui, tra le altre cose, aveva scritto che in Europa, al mattino, succedeva una cosa stranissima, c’era un sacco di gente che andava in giro legata ad un cane.
Che, per uno che non ha mai visto un guinzaglio, e non ha idea neanche di cosa sia, è esattamente quello che succede tutte le mattine, anche sotto casa mia, solo che vederlo è difficile, perché io son così abituato, ai guinzagli, che ho smesso di vederli, e con l’Emilia, mi sembra, succede la stessa cosa, e è per ovviare a questa mancanza di intelligenza nel mio sguardo, che secondo Agamben e Šklovskij esistono l’arte e la poesia.
L’arte, ha scritto Agamben, lo ripeto, non serve per rendere visibile l’invisibile, serve per rendere visibile il visibile e questa cosa, con l’Emilia, cioè con la realtà che trovo sotto casa mia, a me è successa grazie alla fotografie di Luigi Ghirri.
Prima di vedere le fotografie di Luigi Ghirri, se pensavo all’Emilia io pensavo a poche cose, ai pioppi e al fiume Po, prevalentemente; c’erano queste immagini campestri che non avevano niente a che fare con le mie giornate, abito lontano dai pioppi e dal Po, ma che erano da qualche parte nella mia testa dentro una cartellina con su scritto «Emilia».
Dopo che ho visto le fotografie di Ghirri, mi sono accorto che in Emilia ci sono anche i distributori di benzina, i semafori, le fermate dell’autobus, la neve, i bambini che si vestono da Batman per carnevale, i gommisti, le saracinesche, le pubblicità, il cielo. Lui, Ghirri, con le sue fotografie, è come se avesse preso con due dita l’imballaggio che avvolgeva l’Emilia, sotto casa mia, e avesse tolto dal loro imballaggio che li rendeva invisibili i distributori di benzina, i semafori, le fermate dell’autobus, la neve, i bambini che si vestono da Batman per carnevale, i gommisti, le saracinesche, le pubblicità e il cielo che c’erano sotto casa mia e io adesso, è incredibile, riesco a vederli, e la cosa è ancora più incredibile se si considera che Ghirri, sotto casa mia, probabilmente, non c’è mai neanche passato.
Ecco, se noi andassimo, con la nostra antologia, in quella direzione lì in cui è andato Ghirri con le sue fotografie, mi sembra che faremmo una bella cosa.
(Ma il mondo, non era di tutti? è un’antologia voluta dall’Arci nazionale che uscirà per Marcos y Marcos e che abbiamo chiesto di comporre a Emmanuela Carbè, Francesca Genti, Carlo Lucarelli, Monica Massari, Giuseppe Palumbo, Antonio Pascale, Gipi e Christian Raimo)
Scrivo questa nota la notte del 7 marzo 2016, nell’ottantesimo anniversario della nascita di Georges Perec, che subito dopo la seconda guerra mondiale era un bambino senza ricordi d’infanzia. «Non ho ricordi d’infanzia, – scrive. – Fino ai dodici anni, più o meno, la mia storia occupa qualche riga: ho perduto mio padre a quattro anni, mia madre a sei; ho passato la guerra in varie pensioni di Villard-de-Lans. Nel 1945, la sorella di mio padre e suo marito mi hanno adottato. Questa assenza di storia mi ha, a lungo, rassicurato: la sua secchezza oggettiva, la sua apparente evidenza, la sua innocenza mi proteggevano, ma da cosa mi proteggevano, se non esattamente dalla mia storia, dalla mia storia vissuta, dalla mia storia vera, dalla mia storia di me che non ero, si può supporre, né secco, né oggettivo, né apparentemente evidente, né evidentemente innocente?». Perec è nato in Francia, ma non è francese. «Ho un nome francese, – scrive, – Georges, un cognome francese o quasi: Perec. La differenza è irrilevante: non c’è accento acuto sulla prima e del mio cognome, perché Perec è la grafia polacca di Peretz. Se fossi nato in Polonia, mi sarei chiamato, mettiamo, Mordechai Perec, e tutti avrebbero saputo che ero ebreo. Ma non sono nato in Polonia, per mia fortuna, e ho un nome quasi bretone, che tutti scrivono Pérec o Perrec: il mio cognome non si scrive esattamente come si pronuncia. A questa contraddizione insignificante si associa il sentimento tenue, ma insistente, insidioso, ineluttabile, di essere in un certo modo straniero rispetto a qualcosa di me stesso, di essere “diverso”, ma non tanto diverso dagli “altri” quanto diverso dai “miei”; non parlo la lingua che parlavano i miei genitori, non condivido nessuno dei ricordi che essi poterono avere. Qualcosa che era loro, che faceva di loro quel che erano, la loro storia, la loro cultura, la loro speranza, quel qualcosa non mi è stato tramandato». Perec è cresciuto in un mondo, l’Europa occidentale del dopoguerra, che a me sembra l’abbia protetto dalla sua solitudine e abbia avuto interesse a tramandare la sua storia. Una della domande che credo salteranno fuori da questa antologia è: il nostro mondo, è in grado di proteggere qualcuno dalla sua solitudine? Gli interessa tramandare le storie dei Perec di oggi?
Cioè: ha senso, oggi, in Italia, l’articolo primo della dichiarazione dei diritti dell’uomo, quello che dice che «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Sono tutti dotati di ragione e coscienza e devono agire gli uni con gli altri con uno spirito di fraternità»?
P. N.
Casalecchio di Reno, 7 marzo 2015