Questo carico

venerdì 4 Ottobre 2013

ghirri

 

 

 

 

 

 

 

In fondo in ogni visitazione dei luoghi portiamo con noi questo carico di già vissuto e già visto, ma lo sforzo che quotidianamente siamo portati a compiere, è quello di ritrovare uno sguardo che cancella e dimentica l’abitudine: non tanto per rivedere con occhi diversi, quanto per la necessità di orientarsi di nuovo nello spazio e nel tempo.

[Luigi Ghirri, Paesaggio italiano, 1989, ora in Luigi Ghirri, Pensare per immagini, Milano, Electa 2013, p. 224]

Il sentimento che si prova

mercoledì 18 Settembre 2013

pensare per immagini, ghirri

 

 

 

 

L’altro giorno, ero a Roma, mi avevano chiesto di introdurre un dibattito tra politici nuovi, alla Città dell’altra economia, al Testaccio, e io c’ero andato e avevo detto che una cosa che non mi convinceva, dei politici nuovi, era che loro, quel che dicevano, era che loro sono diversi, dagli altri, cioè dai politici vecchi, solo che anche gli altri, quelli vecchi, dicono di essere diversi dagli altri, sia dai nuovi che dai vecchi altri da loro,
allora dei politici veramente nuovi, mi sembra, quello che dovrebbero dire è che loro sono uguali, agli altri; non li voterebbe nessuno, però, probabilmente, e si perderebbe così l’unica occasione di votare veramente il nuovo, la gente ha tanta voglia di nuovo, avevo detto, e avevo aggiunto che forse, la cosa che mi convinceva meno, in questo fatto di proporre se stessi come diversi dagli altri, era che, necessariamente, questo fatto implicava l’essere soddisfatti di sé, e a me mi veniva da pensare a una frase di Čechov, alla fine di un racconto che si intitola Uva spina, che è un racconto dove il protagonista è contento del pessimo vino che fa dall’uva spina e «questo, – scrive Čechov, – è il dramma più terribile, che un uomo sia contento della propria esistenza». Io, avevo detto, capisco Turgenev quando dice: «L’uomo russo è buono soprattutto per il fatto di avere di se stesso una pessima opinione», e avevo aggiunto che io, per uno che è soddisfatto di sé avevo un’istintiva diffidenza, mentre per uno che ha, di sé, una pessima opinione, avevo un istintivo rispetto.
E poi era cominciato il dibattito, e quelli che avevo introdotto avevan cominciato a dire loro com’erano bravi, e io avevo pensato che bravi saran stati bravi, ma prima mi invitavano a introdurli, poi non solo non tenevano minimamente conto della mia introduzione, sembrava che facessero apposta a dire il contrario di quello che avevo detto io, e dopo dieci minuti ero andato a letto, e ero mortificato, sarei andato a Roma per niente, se non fosse che il giorno dopo son stato al Maxxi, il museo nazionale delle arti del XXI secolo, che volevo andare a vedere la mostra di Luigi Ghirri Pensare per immagini che è lì al Maxxi fino al 27 di ottobre. Il Maxxi, come museo, mi ha ricordato quello che Pavel Florenskij diceva dei musei, che «Un museo è una cosa falsa e, in sostanza, dannosa, per l’arte»; l’atmosfera che c’era l’altro giorno al Maxxi, e che gravava sulle opere di Boetti, Clemente, Penone e Ontani, e sulle seggiole e sui ricami e sulle altre strane cose di Vezzoli, l’atmosfera che c’era l’altro giorno al Maxxi nelle sale di Boetti, Clemente, Penone, Ontani e Vezzoli, così come nella sala principale dedicata a una mostra che celebrava, tra le altre cose, gli autogrill, l’atmosfera che gravava su queste sale a me ricordava Twin peaks, sembrava sempre che dovesse saltare fuori da un momento all’altro l’assassino di Laura Palmer; le uniche sale dove non si sentiva la presenza di Twin peaks, c’è da dire, erano le sale, un po’ nascoste, non facilissime da trovare, dove c’erano, e ci sono ancora, fino al 27 di ottobre, le fotografie di Luigi Ghirri, che mi è sembrato avessero una potenza, una pulizia, una chiarezza che ha vinto anche la cupezza degli spazi non felicissimi del museo diretto gratis da Giovanna Melandri.
Ghirri una volta ha scritto che fermandosi, nel silenzio della pianura, il sentimento che si prova è quello di sentirsi esistere, e davanti alle sue fotografie succede un po’ la stessa cosa, e credo succeda perché, come scrive Pavel Florenskij, «l’oggetto artistico, anche se viene chiamato «cosa», non è affatto, per questo, una cosa, non è l’immobile, statica, morta mummia dell’attività artistica, ma dev’essere inteso come la sorgente della creazione stessa che scorre eternamente e mai si esaurisce, come viva, pulsante attività del creatore».
Ecco, su di me, queste cose che non sono cose ma sorgenti, hanno avuto un effetto che l’altro giorno, al Maxxi, non mi sembrava di veder delle fotografie, ma degli occhi, due occhi che guardano quando guardan davvero e vedono, per esempio, nei dorsi dei propri libri l’elemento di un autoritratto, e che le insegne dell’Esso, o della Total, sono pezzi non secondari di Emilia, o quel che c’è scritto nel retro delle persone, o l’universo che si può trovare in un portacenere di Modena, o la disperazione di certi muri di Ferrara, o il bianco che c’è quando nevica in Emilia Romagna. Una delle foto celebri di Ghirri si intitola Casa Benati e Daniele Benati, nel catalogo della mostra del Maxxi, scrive che Ghirri «ha reso eterni una spiaggia, un casolare, un pioppeto, un fosso, lo spigolo di un muro, perché ha saputo cogliere l’attimo in cui queste cose appaiono nella loro essenza visiva che colpisce l’occhio per la sua momentanea bellezza». «Che noi però non sapremmo cogliere, – ha scritto Benati, – a meno che non sia un artista a farcelo notare».

 

[uscito ieri su Libero]

Ghirri

lunedì 16 Settembre 2013

ghirri
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Molti hanno visto o scambiato queste fotografie per fotomontaggi; questi che io invece chiamerei fotosmontaggi.

La realtà in larga misura si va trasformando sempre più in una colossale fotografia e il fotomontaggio è già avvenuto: è nel mondo reale.

[Luigi Ghirri, Pensare per immagini, Milano, Electa 2013, pp. 108, 288]

Ghirri

lunedì 16 Settembre 2013

images

 

 

 

 

 

 

 

La cancellazione dello spazio che circonda la parte inquadrata è per me importante quanto il rappresentato ed è grazie a questa cancellazione che l’immagine assume senso diventando misurabile.

Il mio ruolo di fotografo non vuole essere né quello dell’autore, del cronista, dello spettatore, o del suggeritore, ma è anche, il mio, un ruolo identico a quello dei fotografati.

[Luigi Ghirri, Pensare per immagini, Milano, Electa 2013, pp. 132, 152]

Quello che lega

domenica 2 Dicembre 2012

Quello che lega i volti e i luoghi, gesti, particolari, frasi riportate o inventate da Zavattini, sembra essere collegato da questo ‘sentire comune’, un’armonia che non è una formula sentimentale romantica o nostalgica, ma è il sentirsi parte di una comunità, essendo tutti e tutto costruttori della comunità stessa, dei suoi valori, delle sue atrocità e bellezze.
Questo sentimento mi ricorda un po’ le cantate di Bach, composizioni settimanali del musicista, scritte per la gente del villaggio,che ogni domenica venivano suonate e cantate nella chiesa.
Ma rivedendo il lavoro di Strand e Zavattini, mi sembra non si possano coltivare nostalgie di nessun tipo, perché la modernità e la freschezza dell’opera rimangono inalterate e, caso mai, ci resta soltanto la constatazione dolorosa che la loro rimane una grande opera sulla coralità del mondo, della quale ci hanno dato l’ultimo realistico affresco, perché di lì a poco tutto questo si sarebbe dissolto, frantumato. Zavattini, la famiglia Lusetti, Hazel e Paul Strand, il sellaio, il farmacista, i bambini, la Dosolina, costruiscono la lunga strada narrativa dove ai lati si snodano cappelli di paglia, la segnaletica del Touring Club, filari e paracarri, Garibaldi dipinto sul muro e i glicini, che non sono inerti fondali per meravigliose nature morte, ma assumono il rilievo attonito della semplicità e del mistero delle cose della vita degli uomini.

[Luigi Ghirri, Come un canto della terra, in Paolo Costantini, Luigi Ghirri, Strand. Luzzara, Milano, clup 1989, p. 36]

Ghirri

sabato 10 Dicembre 2011

Vedere un paesaggio come se fosse la prima e l’ultima volta determina un sentimento di appartenenza a ogni paesaggio del mondo.

[Luigi Ghirri, Niente di antico sotto il sole, in Luigi Ghirri, Architetture e paesaggi, a cura di Gino Malacarne, Ildebrando Clemente, Alessandro Moro, Bologna, Clueb 2011, p. 31]

Ghirri il fotografo

martedì 16 Dicembre 2008

Tra i testi arrivati questo mese al settemestrale di letteratura l’accalappiacani, c’era questo, di Silvia Marmiroli, che si intitola Ghirri il fotografo

Ghirri il fotografo

Mi ricordo che Ghirri, Ghirri il fotografo, faceva i ritratti delle persone da dietro.

Nei suoi scatti di ritratti infatti la gente è di spalle, seduta su una panchina di spalle, di spalle mentre cammina, di spalle mentre guarda un lago o qualcosa in un lago.

Il suo sguardo, nei ritratti, è sempre da dietro, per quello che conosco io del fotografo Ghirri. Mi sembra di aver letto che questa cosa dei ritratti da dietro era a suo vedere il modo migliore per rappresentare le persone, perché le persone da dietro, secondo la sua opinione, raccontano meglio se stesse. Da allora io faccio molto caso a questa cosa del vedere da dietro se davvero da dietro si capisce di più delle persone che vedere dal davanti. Delle volte mi sembra che abbia ragione, Ghirri, delle volte no.

Delle volte guardare da dietro, se penso a mia nonna, dico che non ci sarebbe voluto molto a capire il suo carattere, da dietro, per via di quello schiacciamento a raggiera dei capelli non pettinati che lasciavano sempre vedere un cerchio di cute bianca. Non ci sarebbe voluto molto a capire che era un tipo essenziale, di natura anche un po’ burbera e che non amava perder del tempo in cure di bellezza. Delle volte non perdeva tempo neanche a vestirsi, negli ultimi tempi andava a fare la spesa in sottoveste, si scordava la gonna a casa e il fruttivendolo ormai non si scandalizzava neanche più, la serviva, non ci faceva più caso. Io la stavo a guardare dalla finestra, là che andava col suo cane al guinzaglio.