Quel che si dice sia successo a Ferrara
Quale significato attribuisci alla parola matto? Chi è il matto?
Una delle prime cose che si siamo detti, quando abbiamo cominciato a lavorare ai Repertori dei matti, era che non vole amo fare dei libri nei quali dei sani, dei normali, dall’alto della loro normalità, raccontassero quel che facevano i matti, voglevaao fare dei libri dove la pazzia che abita le nostre città e che, spesso, vive in noi stessi, saltasse fuori.
Allora siamo partiti da una definizione di Giorgio Manganelli che diceva: «È ovvio che non si valuta un matto, non si dice “costui è un matto bravo”, non ci sono matti migliori di altri; un matto è un capolavoro inutile, e non c’è altro da dire».
Uno dei partecipanti alla stesura del primo dei Repertori dei matti che ho curato, quello di Bologna, Angelo Fioritti, era, all’epoca, il direttore del servizio di Diagnosi e cura di Bologna, e quando il libro è uscito mi ha invitato a presentarlo con i suoi pazienti e ex pazienti e una ex paziente mi ha chiesto «Ma perché non avete fatto il repertorio dei normali, della città di Bologna?». E io le ho detto che non ci avevo pensato, e lei mi ha detto che ne aveva scritto uno lei e mi ha chiesto se poteva leggerlo, e io le ho detto di sì, e lei l’ha letto e diceva, più o meno «Uno si svegliava al mattino, si faceva la barba, faceva la doccia, si vestiva, faceva colazione, caffelatte e biscotti al cioccolato, si lavava i denti, usciva…». Era noiosissimo.
Come nasce l’idea di costruire un repertorio?
Il modello è il Repertorio dei pazzi della città di Palermo di Roberto Alajmo, che ha avuto tre diverse edizioni e che sta per essere ripubblicato da Sellerio. Copio qua sotto tre dei matti di Alajmo:
Uno era il professore Ascoli, medico di fama. Quando si trovava ad affrontare un caso clinico particolarmente delicato, gli capitava di sospendere la visita, lasciare il paziente in mutande nel suo studio e andare a fare una passeggiata in bicicletta per riuscire a riflettere meglio. Poi tornava e non sbagliava mai una diagnosi.
Uno era l’attore Carlo Cecchi. Quando la prova generale di Amleto al teatro Garibaldi andò secondo lui male, si rifiutò di riconoscere le facce degli amici che andavano a fargli i complimenti in camerino: «Lei chi è? Io non la conosco».
Uno si chiamava Ettore, e stava ore e ore in gabinetto. Fino a quando la madre non gli urlava: «Ettore, scippati di’ddocu». Poi diventò grande e sua madre si stancò di gridare da dietro la porta. Ettore però non sapeva mai calcolare il tempo giusto per stare in gabinetto. Quindi dopo un poco si faceva prendere dall’ansia ed era lui a chiedere da dentro: «Mamà, mi scippo sì o no?»
Chi erano i matti una volta e chi sono i matti di oggi? E’ cambiato qualcosa nella nostra percezione del matto, se sì cosa?
C’è un mio amico (Daniele Benati) che ha scritto un libro bellissimo, Le opere complete di Learco Pignagnoli, e l’opera numero 13 fa così: «Opera numero 13. Tranne me e te, tutto il mondo è pieno di gente strana. E poi anche tu sei un po’ strano». Credo che questa cosa, che il mondo è pieno di gente strana, cioè l’aspetto ordinario della pazzia (che vale anche per i primi due pazzi di Alajmo), valga sia per il presente che per il passato.
Poi c’è un altro mio amico, Andrea Cardoni, che ha partecipato alla stesura del Repertorio dei matti della città di Roma, e che ha scritto, tra gli altri, questo matto qui «Uno che si chiamava Nino B. stava nel padiglione 16, e quando gli dissero che volevano chiudere il Santa Maria della Pietà, l’ospedale psichiatrico di Roma, prese il direttore sanitario Tommaso L. e gli disse: “non puoi sapere quanto sia difficile per noi entrare fuori”».
Credo che anche questa cosa, l’aspetto straordinario della pazzia (che vale anche per l’ultimo pazzo di Alajmo), valga sia per il presente che per il passato.
Quali altre città hanno già pubblicato il loro repertorio? Come cambia la raccolta da una città all’altra?
I repertori dei matti che sono usciti, dopo il capostipite di Alajmo di Palermo, sono quelli di Bologna, Milano, Torino, Roma, Parma, Cagliari, Andria, Livorno, Lucera e Capitanata (cioè Foggia), Reggio Emilia, Genova e Padova. Io non partecipo, alla raccolta, la coordino, quindi non so, per esperienza diretta, cosa cambia, mi immagino che cambi tutto, nella misura in cui Lucera è diversa da Milano, e niente, nella misura in cui siamo tutte persone che si nutrono di storie e il modo che abbiamo di raccontarci le storie non cambia tanto, forse, se viviamo a Lucera, a Milano, a Palermo, a Reggio Emilia o a Ferrara.
Chi dovrebbe assolutamente iscriversi al corso, e chi no?
Quelli che parteciperanno al seminario e scriveranno il libro, che saranno dai 15 ai 20, dovranno scriverlo come se lo scrivesse uno solo; dovranno quindi rinunciare al proprio stile e scrivere un libro in coro, in un certo senso. Chi è interessato a un’esperienza del genere, è il benvenuto, chi è più interessato a elaborare uno stile personale, forse farebbe bene a scegliere un’altra cosa.
Come si svolgerà questo percorso, cosa intendi per scrittura senza sentimento?
Ammesso che ci siano abbastanza partecipanti, ci troveremo un primo fine settimana (18 e 19 novembre) per impostare il lavoro, ragionare su cosa scrivere e su cosa non scrivere e per far degli esempi pratici e provare a cominciare a buttar giù qualche matto di Ferrara. Poi i partecipanti avranno tre settimane per raccogliere i matti e scriverli, e li porteranno il 9 e il 10 dicembre al nuovo incontro dove li leggeremo tutti e diremo quali van bene e quali no; poi monteremo il libro, faremo tre o quattro stesure e poi affideremo tutto alla casa editrice Marcos y Marcos e infine, se tutto andasse bene, il libro uscirebbe nel maggio del 2018. Per scrittura senza sentimento intendo il fatto questi repertori a me ricordano le cronache medievali: qui, chi scrive, non deve dire quel che pensa lui, quel che gli piace, o che gli dispiace, non deve dar dei giudizi, non deve dar voce a quel che sente dentro la pancia, per quanto nobile possa essere, deve dire quel che è successo o quel che si dice che sia successo in città (e in provincia).
Che rapporto hai con Ferrara? E’ una città che conosci bene o che hai solo attraversato? Cosa ti aspetti dai matti di Ferrara?
Non la conosco benissimo: son venuto qualche volta, molti anni fa, ai Buskers, sono venuto a Palazzo dei Diamanti, ho accompagnato dei miei amici russi, che volevano vederlo, al castello, ho presentato qualche libro, ho mangiato una volta la salama, sono venuto a far delle foto che sono poi finite in un numero di Panta sull’Emilia, ma non posso dire di conoscerla bene, Ferrara.
Per via delle aspettative, io sono anni che mi esercito a non aspettarmi niente, dalle cose che devo fare, quindi anche dai matti di Ferara devo dire che non mi aspetto niente.
[Intervista a Licia Vignotto pubblicata su Listone Mag, clic]