Una lettera
Alludendo alle Tue esperienze solevi dire in tono amaro di scherzo che noi stavamo troppo bene. Ma in un certo senso non è affatto uno scherzo. Quello che Tu avevi dovuto conquistarTi lottando non lo ricevevamo dalle Tue mani, ma la lotta per la vita, quella che a Te fu subito familiare e che naturalmente neppure a noi venne risparmiata, noi la dovemmo combattere più tardi, con forze infantili nell’età adulta. Non voglio dire che la nostra posizione sia stata più difficile della Tua, probabilmente le due posizioni si sono equivalse (per quando le tendenze naturali non si possano paragonare); il nostro svantaggio è in ciò, che noi non possiamo gloriarci delle nostre sofferenze, né umiliare con esse alcuno come invece Tu hai fatto con le Tue. Neppure nego che forse avrei potuto godere gistamente dei frutti del Tuo grande e fortunato lavoro, trarne profitto e con esso seguitare a lavorare così da procurarTi gioia e soddisfazione, ma c’era la misura che ci divide. Io potevo fruire di cià che Tu davi, ma solo nella vergogna, nella stanchezza, nell’impotenza, nel sentimento di colpa. Posso perciò esserTi grato come un mendicante, non con quanto ho compiuto.
[Franz Kafka, Lettera al padre, traduzione di Anita Rho, Milano, il Saggiatore 1985, p. 27]