Ho vent’anni
L’incontro con Antonio fa parte della serie di celebrazioni per una data fatidica. Il giorno dei miei 42 anni, quello in cui ufficialmente divento più vecchio di mia madre. Da oggi in poi Elena rimarrà eternamente in quell’età, in un certo senso ancora giovane, e io continuerò a invecchiare, lasciandola indietro e – forse, un giorno – riuscendo a seminarla del tutto. Oppure forse, se camperò abbastanza, a un certo punto avrò l’età sufficiente per essere suo padre, e i ruoli si saranno del tutto invertiti. Strana impressione da celebrare, intanto, sentirsi molto più giovane di quel che sembrava lei a me. Ma la falsa percezione è scontata, nel rapporto fra figlio e madre, dopo tutto il tempo che è passato.
Lo scrittore Antonio Delfini si è trovato in una situazione analoga, ancora più cocente, quando presenziò alla riesumazione dei resti del padre, morto prima che lui nascesse.
Intatto nel viso, nel corpo, nella barba, nei capelli (così come risultò all’apertura della cassa, nel cimitero di Modena, la mattina del 10 febbraio 1962…) egli si lasciò vedere da me per la prima volta nella mia vita. Non avevo mai avuto un ricordo visivo di lui. Lui, mi padre, aveva 33 anni; e io, suo figlio, 54. Unico al mondo, io creo, ho visto per la prima volta il papà: lui, in età di mio figlio; io, in età di suo padre.
Oppure, ancora: un filmo sovietico, Ho vent’anni di Marlen Chuciev. In questo film il protagonista parlava costantemente con il fantasma del padre, morto giovanissimo durante la prima guerra mondiale. Questo padre mai conosciuto era il suo punto di riferimento, a lui chiedeva consiglio in ogni frangente della vita. Ma il fantasma del padre rimaneva solo un’ombra, non si mostrava mai in viso. Fin quando, all’ennesima richiesta esasperata del figlio ormai diventato uomo, l’ombra mostrava il suo viso imberbe e desolato, rivelandosi:
– Perché domandi a me? Io ho vent’anni.
[Roberto Alajmo, L’estate del ’78, Palermo, Sellerio 2018, pp. 119-121]