venerdì 8 Aprile 2022
Cioè lui, l’Ariosto, dentro l’Orlando Furioso, dove ha parlato benissimo degli Estensi, che l’hanno pagato per scriverlo, dice che se di qualcuno, dentro nei libri, se ne parla bene, vuol dir che quello lì ha pagato.
E dopo dice che c’è solo un modo, per il lettore, per sapere come è andata davvero: «Omero Agamennòn vittorioso, / e fe’ i Troian parer vili ed inerti; / e che Penelopea fida al suo sposo / dai Prochi mille oltraggi avea sofferti. / E se tu vuoi che ’l ver non ti sia ascoso, / tutta al contrario l’istoria converti: / che i Greci rotti, e che Troia vittrice, / e che Penelopea fu meretrice».
Ecco. Chissà.
[Oggi, su Left, esce un pezzo sulla Russia e l’Ucraina, quello qui sopra è il finale (nell’immagine, Ariosto in un frontespizio del 1538, Milano, Ambrosiana)]
giovedì 12 Maggio 2016
[Ma il mondo, non era di tutti? è un’antologia voluta dall’Arci Nazionale che uscirà per Marcos y Marcos e che abbiamo chiesto di comporre a Emmanuela Carbè, Francesca Genti, Carlo Lucarelli, Monica Massari, Giuseppe Palumbo, Antonio Pascale, Gipi e Christian Raimo. Ne parliamo il 13 maggio a Pozzallo con Federico Amico e ne abbiamo parlato in questa intervista a Donatella Coccoli che è sul sito di Left, anche]
Paolo Nori ci può parlare di questa antologia da comporre? Qual è il filo che la percorre, pur nella diversità delle voci? E come sono stati “scelti” gli autori?
L’antologia uscirà a settembre ed è, come dice lei, da comporre, vedremo come sarà quando ci sarà, sono molto curioso. Abbiamo scelto degli autori che ci sembrano molto bravi (un criterio poco originale, mi rendo conto).
Le parole di uno scrittore contro chi costruisce muri e barriere, contro chi costringe ad attraversare i mari e morire. Parole che difendono le altre parole scritte nelle costituzioni e nelle dichiarazioni dei diritti dell’uomo, conquistate dopo guerre e sofferenze. Qual è la forza (o il senso?) della parola oggi di fronte alla forza della ragion di stato e della paura?
Qual è la forza della parola è una bella domanda. In letteratura, io ho l’impressione che la letteratura abbia una forza che equivale alla forza di gravità. Ci si può opporre alla forza di gravità? Io non ci riesco.
Lei nella prefazione parla di Georges Perec, della sua vita e dell’”assenza di storia”. Oggi vale per i migranti, per gli stranieri, ma vale anche per noi, persi in un presente di solitudine?
Monica Masssari, in un saggio del 2013, riporta la testimonianza di un ragazzo ghanese, che ha dovuto attraversare il deserto per arrivare in Libia, e che è stato abbandonato dalla guida che aveva pagato, e che ha dovuto, coi suoi compagni di viaggio, proseguire da solo, a lume di naso, orientandosi con i cadaveri, se c’era un cadavere voleva dire che c’era una strada, e a un certo punto, di notte, avevan visto la luna e avevan pensato che, siccome c’era una luce, fossero delle case, e avevan seguito la luce della luna. Mi sembra che, al confronto, il nostro presente di solitudine sia abbastanza desiderabile.
Gli uomini nascono liberi e uguali, lei ricorda citando la Dichiarazione universale del 1948. E parla anche di fraternità. Le faccio la domanda che lei si fa nella prefazione: ha ancora senso tutto questo in Italia? Cosa vive lei attorno a sé? Cosa sente, anche quando va a presentare i suoi libri o nelle letture pubbliche ?
La dichiarazione dei diritti dell’uomo dice che: «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Sono tutti dotati di ragione e coscienza e devono agire gli uni con gli altri con uno spirito di fraternità». Quando leggo queste cose mi viene in mente quel che diceva uno scrittore russo che si chiama Aleksandr Zinov’ev in un libro appena ripubblicato da Adelphi, Cime abissali, quando diceva che tutto quello che ufficiale, è falso. Io sono di Parma, e a Parma si dice «essere falsi come una lapide». Ecco questa dichiarazione dei diritti dell’uomo è come se fosse scolpita nel marmo, ma è vera? L’idea che siamo stati così civili da aver costruito un mondo dove tutti sono uguali è un’idea vera? L’antologia credo si muoverà in questa direzione.
Lei ha scritto il manuale del giornalismo disinformato. Cosa significa? E quali parole bisogna usare per informare, cioè “formare in”, cioè far conoscere?
Il Manuale pratico di giornalismo disinformato è un romanzo, e io non sono capace di spiegare, in due righe, cosa significa un romanzo. Né credo che la letteratura serva per informare. Per informare ci sono altri strumenti, la letteratura mi sembra faccia un giro diverso, secondo Šklovskij rende il mondo più mondo, serve per far sì che la pietra sia pietra, e una cosa simile la dice Agamben, quando dice che la letteratura (o l’arte) non serve per rendere visibile l’invisibile ma per rendere visibile il visibile.
E quando penso a questa cosa mi viene in mente l’esempio di quegli antropologi bolognesi che qualche decennio fa avevano invitato un cantastorie senegalese, uno che scriveva delle storie e poi le metteva in musica e le cantava ai suoi concittadini, l’avevano invitato a Bologna e gli avevano detto di osservare i bolognesi e di scrivere poi una canzone su di loro da cantare ai senegalesi e lui, tra le altre cose, aveva scritto che in Europa, al mattino, succedeva una cosa stranissima, c’era un sacco di gente che andava in giro legata ad un cane.
Che, per uno che non ha mai visto un guinzaglio, e non ha idea neanche di cosa sia, è esattamente quello che succede tutte le mattine, anche sotto casa mia, solo che vederlo è difficile, perché io son così abituato, ai guinzagli, che ho smesso di vederli, e con l’Emilia, mi sembra, succede la stessa cosa, e è per ovviare a questa mancanza di intelligenza nel mio sguardo, che secondo Agamben e Šklovskij esistono l’arte e la poesia.
L’arte, ha scritto Agamben, lo ripeto, non serve per rendere visibile l’invisibile, serve per rendere visibile il visibile e questa cosa, con l’Emilia, cioè con la realtà che trovo sotto casa mia, a me è successa grazie alla fotografie di Luigi Ghirri.
Prima di vedere le fotografie di Luigi Ghirri, se pensavo all’Emilia io pensavo a poche cose, ai pioppi e al fiume Po, prevalentemente; c’erano queste immagini campestri che non avevano niente a che fare con le mie giornate, abito lontano dai pioppi e dal Po, ma che erano da qualche parte nella mia testa dentro una cartellina con su scritto «Emilia».
Dopo che ho visto le fotografie di Ghirri, mi sono accorto che in Emilia ci sono anche i distributori di benzina, i semafori, le fermate dell’autobus, la neve, i bambini che si vestono da Batman per carnevale, i gommisti, le saracinesche, le pubblicità, il cielo. Lui, Ghirri, con le sue fotografie, è come se avesse preso con due dita l’imballaggio che avvolgeva l’Emilia, sotto casa mia, e avesse tolto dal loro imballaggio che li rendeva invisibili i distributori di benzina, i semafori, le fermate dell’autobus, la neve, i bambini che si vestono da Batman per carnevale, i gommisti, le saracinesche, le pubblicità e il cielo che c’erano sotto casa mia e io adesso, è incredibile, riesco a vederli, e la cosa è ancora più incredibile se si considera che Ghirri, sotto casa mia, probabilmente, non c’è mai neanche passato.
Ecco, se noi andassimo, con la nostra antologia, in quella direzione lì in cui è andato Ghirri con le sue fotografie, mi sembra che faremmo una bella cosa.
lunedì 15 Settembre 2014
È difficilissimo, per me, parlar della Russia, è una cosa che ha a che fare con dei sentimenti così grossi, nella mia pancia, che praticamente della Russia io non posso dir quasi niente senza essere ostacolato da tutti questi sentimenti che si mettono in mezzo e proprio per quello è una cosa che mi sembra valga la pena di provare a raccontare. C’è una canzone di Dino Sarti dove lui racconta di essere stato in Russia e dice che la cosa più interessante, della Russia, è quando torni, dalla Russia, le domande che ti fanno, che a lui gli avevano chiesto «Di sò, Dino, comm’êla la Róssia», e lui aveva risposto «La Róssia l’é granda». Ecco. Continua a leggere »
domenica 17 Agosto 2014
[Sul numero di Left che è in edicola c’è anche questo pezzetto sul museo Guatelli con le fotografie di Carlotta Zarattini]
Sai come dicono a Parma, a una ragazza, per dirle che è bella? Sei fatta a mano. Ecco, lì dentro, c’è quasi solo della roba fatta a mano. Quello lì è un posto che è un lavoro, che io un lavoro così non l’avevo mai visto. Un museo, ma non un museo, cioè si chiama museo, Museo Guatelli, si chiama, ma lo chiamano Il bosco delle cose, perché lì dentro ci son sessantamila cose che praticamente son come sessantamila storie, perché ciascuna di quelle cose lì ha una storia, e alcune ne hanno anche più d’una perché son cose che hanno dei secoli, e la maggior parte, di quelle cose lì, vengono da quel periodo lì, dell’inizio del secolo scorso, o anche prima, che i contadini, c’era una miseria, sai come dicono a Parma? In casa nostra c’era una miseria che quando siam diventati poveri abbiam fatto una festa, e lì, uguale, una cosa anche quando si rompeva non la buttavano via, la tenevano lì che poteva venir sempre buona. Han cominciato poi dopo negli anni sessanta a buttar via la roba, quando è arrivata la fòrmica, la plastica, ma lì, a Ozzano Taro, c’era un signore, che si chiamava Ettore Guatelli, che era un maestro elementare che per lui era un dispiacere veder buttar via tanta roba, e allora la teneva tutta lui, raccoglieva tutto, aveva questa casa grande, col fienile, e piano piano ha messo insieme questo museo che però è un museo senza quadri, cioè è un museo che non è un museo, è un museo che espone delle falci, delle botti, delle scarpe, delle scatole di latta, ma delle quantità, non so come dire, industriali, cioè non sono industriali-industriali, son sessantamila, che non sono tantissime, non son neanche poche, ma non è la quantità, è la qualità, cioè è la quantità che rafforza la qualità, non so, ti faccio un esempio, quando è andato lì Federico Zeri, il critico, sai Federico Zeri? No? Be’, è un critico, famoso, dell’arte, che ha scritto, dopo che c’è stato, «Per fortuna c’è stato qualcuno che ha raccolto gli oggetti della cultura contadina e ha istituito delle raccolte e la principale, direi la raccolta maggiore, la più importante, la più bella, la più interessante e direi anche la più commovente è quella fatta da Ettore Guatelli, che per tutta la vita ha raccolto gli oggetti della cultura contadina e della vita quotidiana dei contadini e li ha raccolti con un’apertura mentale ECCEZIONALE, senza privilegiare questo o quell’oggetto e ha messo su un museo vicino a Collecchio, a Ozzano Taro. Io lo considero uno dei musei più straordinari dell’Italia, innanzitutto per la ricchezza dei reperti, e degli oggetti, e in secondo luogo per il modo con cui è allestito, modo che dimostra un grandissimo gusto, una grande sensibilità e una grande intelligenza». Oppure Christian Boltanski, sai Boltanski, l’artista? No? Be’, è un artista, performer, regista, credo, è famoso, e è stato lì al museo Guatelli e dopo che c’è stato ha scritto: «Le somiglianze tra la mia poetica e quella di Guatelli, geniale maestro elementare con la passione per il tutto può tornare utile, sono tantissime. Ho visto similitudini non solo con il mio lavoro, ma anche con quello di Duchamp e di Spoerri. Perché anche Guatelli come loro estrapola gli oggetti (in questo caso attrezzi da lavoro) dal loro contesto, li reinveste e li trasforma rendendoli mausolei del passato. Strappa alla dimenticanza echi di persone appartenenti ad un mondo minore, che nessuno avrebbe mai raccolto». Ecco. Sai chi è Spoerri? No? Eh, Spoerri non lo conoscevo neanch’io, è un pittore rumeno, ho scoperto, naturalizzato svizzero, è famoso anche lui. Allora niente. Continua a leggere »
giovedì 8 Maggio 2014
Io di politica, devo dire, ne so poco, e quel poco che so non lo so proprio di politica nel senso che si dà normalmente alla parola, lo so forse di politica nel senso che le do io, alla parola: se penso, per esempio, al 25 aprile, che è stato la settimana scorsa, a me viene in mente una poesia di Nino Pedretti che si intitola I partigiani e che fa così: «Non è per via della gloria, / che siamo andati in montagna, / a fare la guerra. / Di guerra eravam stanchi, / di patria anche. / Avevamo bisogno di dire: / lasciateci le mani libere, / i piedi, gli occhi, le orecchie; / lasciateci dormire nel fienile, / con una ragazza. /Per questo abbiam sparato, / ci siam fatti impiccare, / siamo andati al macello / col cuore che piangeva, / con le labbra che tremavano. / Ma anche così sapevamo / che di fronte a un boia di fascista / noi eravam persone, e loro marionette». Ecco, per me, è bellissima l’idea di andare al macello per aver le mani libere, per dormire nel fienile, con una ragazza, e a me sembra che sian quelle, le cose per cui vale la pena andare al macello: aver le mani libere, i piedi, gli occhi, le orecchie, e dormire in un fienile, con una ragazza; non il sol dell’avvenire, non la repubblica, non la costituzione, il fienile che c’è lì, dietro casa, e le mani, e gli occhi e le orecchie che ho io, adesso.
Allora quando mi dicono, per esempio, che un politico italiano contemporaneo che si chiama Beppe Grillo sta provando a muoversi in modo da conquistare, alle imminenti elezioni europee, i voti degli elettori di centrodestra rimasti orfani (o quasi orfani) di un altro politico italiano contemporaneo che si chiama Silvio Berlusconi e che, per via di alcuni problemi suoi personali, non si può presentare più candidato né alle imminenti europee né, probabilmente, alle future elezioni politiche, quando mi dicono così a me vien da pensare “Eh”. E non so cosa dire. Continua a leggere »
lunedì 5 Maggio 2014
La prima cosa è che oggi, lunedì, allegato all’Unità esce Left con un pezzo dove si immagina che l’Italia, tra vent’anni, sia come Parma. La seconda cosa, che a Parigi, vicino al Centre Pompidou, all’angolo di Rue Saint-Merri c’è un bistrot che sulla vetrina c’è scritto che lì fanno gli spaghetti alla bolognese che sono un piatto, come si sa, che a Bologna non l’ha mai mangiato nessuno. La prospettiva è che oggi, poi, quando mi sveglio: Eurodisney.
martedì 19 Novembre 2013
Una regola
discorso pronunciato
a Roma,
alla Città dell’altra economia
il 14 settembre del 2013
come introduzione al dibattito
che chiude
la festa di Left-avvenimenti
al quale partecipano Pippo Civati,
Adriano Zaccagnini,
Mirko Tutino,
Giulio Cavalli,
Paola Natalicchio e Giovanni Tizian
e poi ripronunciato a Cagliari,
nella sede dall’associazione Asibiri
il 16 novembre 2013
Buongiorno.
Grazie dell’invito. Io mi chiamo Paolo Nori, sono di Parma, abito a Casalecchio di Reno, vicino a Bologna, e scrivo dei libri, dei romanzi, prevalentemente, ma anche dei discorsi, e oggi mi hanno chiesto di scrivere un piccolo discorso che abbia come tema il tema di questo incontro che chiude la festa di Left, che è Le cose si cambiano, cambiandole.
Ecco, Left è una rivista politica, quelli che parteciperanno al dibattito son tutte persone che, in diversi modi, sono tutti, come di dice, attivi in politica, e noi siamo abituati a pensare che la politica sia il posto dove, per antonomasia, si cambian le cose, e mi vengono in mente due cose, mia nonna, che, quando io mi son laureato a lei le sembrava una cosa così grande, il fatto che mi fossi laureato, le sembrava che io fossi diventato così bravo, laureandomi, che mi diceva che senz’altro sarei andato in parlamento e io le dicevo No nonna, farò poi dell’altro, e infatti è andata così, ho poi fatto dell’altro, e la seconda cosa che mi viene in mente è Pietro Nenni, che, come si sa, quando i socialisti sono entrati per la prima volta al governo e gli hanno chiesto cosa succedeva nella stanza dei bottoni lui ha detto che, entrando al governo, lui si era accorto che, nella stanza dei bottoni, non c’eran bottoni e io, adesso, una cosa che vorrei chiedere, a quelli che parteciperanno al dibattito dopo, cioè Pippo Civati, Giulio Cavalli, Adriano Zaccagnini,
Mirko Tutino, Paola Natalicchio, Giovanni Tizian, che ciascuno dal suo punto di osservazione ne sanno molto più di me, volevo chiedergli se ce li hanno messi, i bottoni, nella stanza dei bottoni, perché io, l’impressione che ho, di politica io ne so molto poco ma se il motivo per cui vale la pena di fare politica è cambiare le cose, io vorrei capire in che senso vi sembra che si possano cambiare le cose. Continua a leggere »
sabato 14 Settembre 2013
Sabato 14 settembre,
a Roma,
in largo Dino Frisullo,
al Testaccio
(città dell’altra economia)
alle 20,
leggo un discorso di una ventina di minuti
che dovrebbe trattare del fatto che le cose si cambiano
cambiandole
e che vale come introduzione al dibattito che chiude
la festa di Left-avvenimenti
al quale partecipano Pippo Civati, Adriano Zaccagnini,
Mirko Tutino, Giulio Cavalli, Paola Natalicchio e Giovanni Tizian.
martedì 20 Agosto 2013
Cioè quella cosa lì della dieta magari la dico, però cominciare magari è meglio se comincio dicendo che io, sul cambiare, non so cosa dire.
martedì 20 Agosto 2013
Devo forse scrivere un discorso sul fatto di cambiare, sulla possibilità di cambiare, potrei forse cominciare a parlar della dieta, che una cosa incredibile, che succede, è che, se uno si mette a dieta, dimagrisce, che io quando ero piccolo non ci credevo.