Mettersi in mostra

sabato 25 Agosto 2018

Tra la metà e la fine del luglio di quest’anno ero in Russia, a Pietroburgo prima e a Mosca poi, e quando mi collegavo a internet, la sera, o la mattina, sui social, quelli che frequento io, che sono Facebook e Twitter, quasi tutti parlavano della stessa cosa, che poi era una persona, il ministro dell’interno di una repubblica dell’Europa meridionale che si chiama Repubblica Italiana. La cosa era abbastanza stupefacente perché in Russia, tra la metà e la fine del luglio di quest’anno, per strada, in metropolitana, nei mercati, nei bar, nei musei, davanti a dei quadri stupefacenti come il ritratto di Anna Achmatova di Natan Al’tman, o come la Trinità di Andrej Rublëv, o come il Quadrato nero di Kazimir Malevič, nessuno parlava del ministro dell’interno di una repubblica dell’Europa meridionale che si chiama Repubblica Italiana. Allora lì io mi ero chiesto una cosa: “Non hai vergogna, – mi ero chiesto – a non parlare anche tu del ministro dell’interno di una repubblica dell’Europa meridionale che si chiama Repubblica Italiana?”. E mi ero risposto che no, non avevo, vergogna. Poi, una volta tornato, dal quotidiano la Verità mi hanno chiesto di scrivere qualche pezzo sui social network, e io ho pensato che non lo sapevo, se sarei stato capace, perché io, dei social network, non ne sapevo moltissimo, una delle poche cose che sapevo era che, sui social network, parlano tutti della stessa cosa. Per esempio, l’altro giorno, ero tra Bologna e Casalecchio di Reno che stavo correndo, mi è suonato il telefono era una, gentilissima, giornalista del Corriere della sera che mi ha chiesto, siccome io avevo scritto il romanzo che avevo scritto, se volevo scriver qualcosa per il suo quotidiano sulla cosa che stava succedendo a Borgo Panigale. Io le avevo chiesto che romanzo avessi scritto, perché mi sembrava di averne scritti tanti, di romanzi, e lei mi aveva detto che avevo scritto Grandi ustionati, che è un romanzo che ho scritto tanti anni fa dopo che, nel 1999, mi sono ustionato sono stato in ospedale, al centro Grandi ustionati di Parma, per 77 giorni. Io allora avevo capito e le avevo detto che non sapevo niente di quelli che erano stati ustionati a Borgo Panigale, e che le ustioni sono tutte diverse l’una dall’altra e che io, le avevo detto, non ce la facevo a scrivere niente, della disgrazia di un altro, senza conoscerlo, senza studiarlo, così, dalla comodità della mia nuova cucina. E lei mi aveva ringraziato e ci eravam salutati e dopo poi basta, avevo ricominciato a correre, poi ero tornato a casa, avevo aperto i social, tutti parlavano di quel che era successo a Borgo Panigale e io mi ero goduto la mia originalità di persona che non scriveva niente dalla comodità della sua cucina nuova. Quindi la cosa dalla quale partire, se volessi scrivere una breve serie di articoli sui social network, sarebbe questa: che quando siamo sui social network, tendiamo a parlare tutti della stessa cosa, tranne quelli che ostentano la propria originalità come me che tendiamo a non parlare tutti della stessa cosa che è uguale, più o meno. Ci lamentiamo, prevalentemente, sui social network. Ci indigniamo. Cioè: ci lamentiamo degli altri. Credo si dica «Mettere alla berlina». Che non so cosa, sia, la berlina, e penso che non c’entri niente con «l’Automobile con carrozzeria ad abitacolo chiuso, a 2 o 4 porte, dotata di bagagliaio posteriore» della quale parlano i dizionari alla voce «Berlina», ma ci siamo capiti. E ci mettiamo in mostra. Anche nelle foto, ci atteggiamo come se volessimo dire: «Guardami guardami come son bello». Anche quelli che non mettono foto, come me, che cerco di non metterne un po’ perché non sono capace, di far delle foto, un po’ perché se no che originale sarei, se ne mettessi, le mettono tutti. Ma parliamo un attimo di me. Negli articoli di giornale nessuno parla di sé, io, da originale, vorrei parlare un altro po’ di me, che è un argomento, tra l’altro, sul quale ne son molto di più, che sui social network. Io, siccome ho studiato russo, dopo che mi son laureato per qualche anno ho fatto l’interprete, e una volta avevo fatto un interpretariato per degli architetti di Piacenza che avevano invitato una delegazione che, mi avevano detto, comprendeva alcuni dei principali collaboratori di El’cin per l’architettura. Questi architetti russi quando erano poi arrivati eran vestiti un modo, avevano dei girocollo mistolana, ce n’era uno che aveva un cappellino da ciclista, e un borsello a tracolla, e due occhiali con delle lenti spessissime e in mano, sempre, una macchina fotografica, e fotografava tutto. Gli architetti di Piacenza, tutti eleganti, Armani, Versace, erano stupefatti, vedere i loro colleghi ex sovietici, e i loro colleghi ex sovietici erano stupefatti, a vedere i loro colleghi piacentini, e una volta gliel’avevano anche detto. Il capo della delegazione russa aveva detto, al capo della delegazione piacentina: «Sembrate dei patrizi, come siete vestiti». Io avevo tradotto, e il capo della delegazione piacentina era rimasto un attimo così che non sapeva cosa dire poi aveva detto «Patrizi? Mia moglie si chiama Patrizia». Ecco io, mi ricordo, anche se ero italiano, io, da originale quale sono, in quella discussione ideologica ero tutto dalla parte dei russi e dei loro maglioni mistolana. Se fossi nato in Unione Sovietica, probabilmente, in quella discussione ideologica sarei stato dalla parte degli architetti piacentini e dei loro completi eleganti. E questa cosa l’ho detta perché mi sembra che questo «Guardami guardami come son bello» abbia, in sé, un valore ideologico che a noi forse sembra che sia anche normale invece io ho il dubbio che non sia normale per niente. Dopo, come saprete, recentemente in Italia è crollata una infrastruttura, in Liguria, che tutti adesso stanno parlando dell’infrastruttura che è crollata in Liguria, e quelli come me che tengono alla propria originalità, e la ostentano (come se dicessero “Guardami guardami come sono originale”) non ne parlano affatto, dell’infrastruttura che è crollata in Liguria, che è come se ne parlassero. Allora secondo me, io alla fine ho pensato che questa piccola serie sui social network forse potrei anche scriverla, e che forse mi sarebbe utile per capire un po’ meglio come ci comportiamo, quando entriamo in un social network, tutti, sia gli originali come me che gli altri che non sono originali affatto. E allora adesso, nelle prossime settimane, una volta a settimana, dalla comodità della mia cucina nuova, proverò a mandare alla Verità un pezzo che parlerà di social network, non tanti, tre o quattro, adesso vediamo. E allora niente. Arrivederci.

[uscito ieri sulla Verità]

Per adesso

domenica 12 Agosto 2018

Tra la metà e la fine di luglio ero in Russia, a Pietroburgo prima e a Mosca poi, e quando mi collegavo a internet, la sera, o la mattina, sui social, quelli che frequento io, che sono Facebook e Twitter, quasi tutti parlavano della stessa cosa, che poi era una persona, il ministro dell’interno di una repubblica dell’Europa meridionale che si chiama Repubblica Italiana.
La cosa era abbastanza stupefacente perché in Russia, tra la metà e la fine luglio, per strada, in metropolitana, nei mercati, nei bar, nei musei, davanti a dei quadri stupefacenti come il ritratto di Anna Achmatova, di Al’tman, o come la Trinità, di Andrej Rublëv, nessuno parlava del ministro dell’interno di una repubblica dell’Europa meridionale che si chiama Repubblica Italiana.
Allora lì io mi sono chiesto una cosa: “Non hai vergogna, – mi sono chiesto – a non parlare anche tu del ministro dell’interno di una repubblica dell’Europa meridionale che si chiama Repubblica Italiana?”. E mi sono risposto che no, non avevo, vergogna. E questo, per adesso, è tutto.

L’unico consiglio che posso dare

sabato 21 Luglio 2018

Quando ho cominciato a scrivere dei libri, nel 1996, ventidue anni fa, ho sentito una voce, dentro la testa, che mi diceva «Ma cosa vuoi scrivere? Ma chi ti credi di essere, a voler scrivere? Ma non ti rendi conto che sei solo una merda e che non hai nessuna speranza di essere altro?».
In questi giorni, ventidue anni dopo, sto cominciando a scrivere un romanzo che si intitola Che dispiacere, e tutte le volte che mi metto lì che provo a farlo girare, io sento una voce, nella mia testa, che mi dice «Ma cosa vuoi scrivere? Ma chi ti credi di essere, a voler scrivere? Ma non ti rendi conto che sei solo una merda e che non hai nessuna speranza di essere altro?».
E mi viene in mente di quando avevo appena cominciato a scrivere, nel ‘96, un pomeriggio che ero a Parma, in via Cavour, la via del passeggio, in mezzo alla gente, e avevo sentito uno che diceva «Oh, deficiente!», e mi ero voltato convinto che chiamasse me; e mi ero acconto che io, di questo fatto, ero contento.
E all’inizio non capivo come mai, questa contentezza nel momento in cui mi rendevo conto di avere un’autostima, se così si può dire, ai minimi storici, e dopo a pensarci ho pensato che scrivere, per me, io per mettermi a scrivere, ero già grande, avevo più di trent’anni, per provare a scrivere io avevo dato le dimissioni da un lavoro normale: ero responsabile amministrativo di una joint venture franco-italiana che lavorava al metanodotto Artère du midi, nel sud della Francia, e ero nel mondo, dentro un organigramma, ero lì, a metà strada, impegnato a salire, e scrivere, per me, aveva voluto dire uscire dall’organigramma, venirne fuori, rifiutare l’idea che dovevo sforzarmi per essere più bravo, più furbo, migliore degli altri, aveva voluto dire, in un certo senso, aver la patente del deficiente, per questo forse ero contento quando mi ero girato a sentire «Oh, deficiente».
E, a pensarci, quella voce lì che mi chiedeva chi mi credevo di essere e che mi ricordava che ero solo una merda e che non avevo nessuna speranza di essere altro era una voce della quale io, forse, avevo bisogno.
Perché la condizione di uno che si mette a scrivere ha forse a che fare con quella cosa che ha scritto una volta Samuel Beckett, che ha scritto che la speranza è un ciarlatano che non fa che imbrogliarci e che lui, Beckett, ha cominciato a star bene quando l’ha persa, e che la frase che Dante ha messo sulla porta dell’inferno, «Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate», lui, Beckett, l’avrebbe messa sulla porta del paradiso.
E un grande scrittore russo, Viktor Šklovskij, diceva che ogni volta che cominciava a scrivere un libro aveva l’impressione che scrivere quel libro lì fosse un compito al di sopra delle sue possibilità e io, quando l’avevo letto, avevo pensato “Ma allora è normale”, e adesso, quando mi tornano fuori quelle voci che mi dicono «Ma cosa vuoi scrivere? Ma chi ti credi di essere, a voler scrivere? Ma non ti rendi conto che sei solo una merda e che non hai nessuna speranza di essere altro?», ecco, per me quello lì è un segno che andiamo bene: ho scritto quasi quaranta libri, e tutte le volte sono stato visitato da quelle voci che mi dicevano «Ma cosa vuoi scrivere? Ma chi ti credi di essere, a voler scrivere? Ma non ti rendi conto che sei solo una merda?», e se adesso, mentre sto scrivendo un libro, non si presentassero quelle voci lì, mi vien da pensare che dovrei preoccuparmi.
Dopo, una volta che uno il libro l’ha scritto, c’è il mondo dell’editoria, che in giro si dice che sia un mondo che se uno non conosce nessuno, in quel mondo lì, se non è raccomandato, arrivare a pubblicare è impossibile.
Ho conosciuto delle persone che, finito di scrivere un romanzo, se lo mandano per posta e poi tengono la busta chiusa per dimostrare, attraverso il timbro postale, che loro l’avevano finito alla data tale e rivalersi, grazie a questa prova documentale, nel caso che qualcuno gli rubasse il romanzo; io, devo dire, sono ventidue anni che conosco della gente che scrive dei romanzi e che prova a farseli pubblicare, non ho conosciuto nessuno a cui hanno rubato un romanzo, e, da parte mia, io negli ultimi ventidue anni ne ho scritti, in media, due all’anno, non me ne hanno mai rubati, e se me li avessero rubati, non so, come avrei reagito, se fossi stato bravo avrei fatto come quello storico di Reggio Emilia che mi han detto dicesse «Rubatemi pure le idee, tanto io ne ho delle altre».
Però è vero che quando uno comincia a scrivere senza avere nessuna relazione con il mondo dell’editoria può aver l’impressione che collegarsi, in qualche modo, con quel mondo, sia difficilissimo, e che farsi pubblicare un libro, non scriverlo, farselo pubblicare, sia quella l’impresa al di sopra delle sue possibilità.
Ecco, io, di solito, quando sento dei discorsi del genere mi vien da pensare a un libro di Tibor Fischer che si intitola La gang del pensiero che inizia così:
«L’unico consiglio che posso dare, se per caso vi doveste svegliare in uno strano appartamento, in preda alle vertigini, con un’emicrania postsbronza saldamente installata nella testa, senza uno straccio addosso, senza il benché minimo ricordo di come siate finiti lì, mentre la polizia sta buttando giù la porta a mazzate con un sottofondo di latrati di cani infuriati, e vi ritrovate per di più circondati da mucchi di riviste patinate con foto di bambini intenti a compiere atti osceni decisamente da adulti, l’unico consiglio che posso dare, ripeto, è questo: cercate di comportarvi in maniera educata e di mostrarvi di buon umore» (la traduzione è di Riccardo Duranti). Ecco. La cosa che dico, di solito, ai seminari di scrittura, dopo aver letto questo inizio, e che ripeto anche ai lettori di questo giornale, che se siete capaci di scrivere un libro che cominci con un inizio che abbia la forza di questo inizio qua e che continui su questo andiamo, mi prendo io l’impegno di trovarvi, nel giro di un mese, un editore che ve lo pubblichi. Perché la cosa che quelli che stanno scrivendo un libro, e che non hanno nessun contatto con il mondo editoriale, non sanno, o se la sanno tendono a dimenticarla, è che in questo momento, in Italia, c’è un sacco di gente il cui lavoro consiste nel cercare delle cose belle da pubblicare. Tra cui anche la vostra, se ce l’avete.

[uscito ieri sulla Verità]

I buoni e i cattivi

sabato 14 Luglio 2018

Una delle cose più difficili, secondo me, per uno che scrive un romanzo, è descrivere un personaggio cattivo. Il cattivo, del libro, bisogna essere bravi, a farlo saltar fuori. Perché non puoi dire semplicemente che è cattivo, sarebbe troppo facile, devi farlo agire in un modo che sia poi il lettore, che vedendolo agire così pensi “Accidenti, com’è cattivo, questo”.
L’unica cosa forse più difficile, di descrivere un personaggio cattivo, è descrivere un personaggio buono. Anche lui, non puoi dire semplicemente che è buono, devi farlo agire in un modo che sia poi il lettore che pensi “Accidenti, com’è buono, questo”.
Mi viene in mente un esempio che ha a che fare con il giornalismo e con la religione.
Io, per un certo periodo, appena preso il diploma, prima ancora di fare l’università, tra l’ottantasette e l’ottantotto, ho lavorato in Iraq, a Baghdad, quando c’era al potere Saddam Hussein.
Una volta, qualche tempo fa, una signora che era stata in Iran, quando mi ha detto che lei era stata in Iran, e io le ho detto che per un po’ avevo vissuto in Iraq, lei m’aveva detto «Be’, in Iraq dev’essere un po’ pericoloso», e io le avevo detto «Ma no, allora c’era Saddam Hussein si stava bene». Dopo mi ero fermato avevo pensato «Ma cosa dici?».
Che il tempo fa delle cose stranissime, alla realtà, e io all’epoca non l’avrei mai detto, che si stava bene, in Iraq, che allora, quando ci abitavo io, in Iraq, 1987-1988, tutto il paese era coperto di gigantografie di Saddam Hussein ne parlavano tutti bene, se ne parlavi male c’era la pena di morte, in Iraq, che allora era alleato con l’occidente anche in occidente non ne parlavano male, di Saddam Hussein, è stato dopo.
Quando tipo quindici anni dopo l’occidente stava per scatenare la seconda tempesta nel deserto, come han chiamato la seconda missione di pace da cui poi è saltata fuori la guerra in Iraq, è stato allora che Saddam Hussein è diventato un nemico ed è stato il momento che in Italia era uscito un libro su Saddam Hussein che io, forse per il fatto che in Iraq ci avevo vissuto, l’avevo comprato e avevo cominciato anche a leggerlo.
Questo libro era stato scritto da un giornalista arabo che viveva in Italia e era una biografia molto dettagliata che cominciava fin dall’infanzia e diceva che la mamma di Saddam Hussein come mestiere faceva la puttana, e che lei suo figlio non l’avrebbe neanche voluto per quello l’aveva chiamato Saddam che significava Maledetto e effettivamente, diceva questo giornalista che poi avrebbe fatto carriera sarebbe diventato vicedirettore ad personam di un importante quotidiano italiano, e poi dopo si sarebbe anche convertito al cattolicesimo in mondovisione, questo giornalista scriveva che, effettivamente, con un nome del genere, Maledetto, era venuto poi fuori un bambino così cattivo che fin da piccolo quando andava alle elementari lui rubava le merendine ai suoi compagni di classe, e se i suoi compagni di classe se ne accorgevano e le rivolevano indietro lui le buttava per terra e poi le pestava coi piedi così non le poteva mangiare nessuno, diceva questo futuro vicedirettore ad personam convertendo in mondovisione che avrebbe poi anche fondato un movimento politico e che queste cose le scriveva in un libro pubblicato da un’importante, rispettata casa editrice italiana, che io mi ricordo che avevo pensato che non avrei mai detto, che si potessero pubblicare delle cose del genere, invece si potevano pubblicare, si vede.
Quando avevo letto quella cosa di Saddam Hussein e delle merendine, avevo finito l’università, avevo già cominciato a scriver dei libri, mi era venuta in mente una mia amica che, quando facevo l’università, aveva un fratello devoto a Sai Baba, e questo fratello, di quella mia amica, aveva insistito perché io vedessi un film sulla vita di Sai Baba.
Un documentario fatto da degli emiliani devoti a Sai Baba che erano stati là in India da Sai Baba per far capire agli emiliani che da Sai Baba non c’erano stati la realtà di Sai Baba per come la capivano loro, quella realtà lì.
Allora in questo documentario si diceva che Sai Baba, che per chi non lo sa era un santone indiano che aveva una pettinatura che sembrava uno dei Nuovi Angeli, cioè aveva una pettinatura da cantante pop–rock degli anni settanta, in questo documentario si diceva che Sai Baba, che la sua specialità era materializzare le cose, che i devoti di Sai Baba andavano là in India dove lavorava e si facevano vedere da lui e lui si faceva girar tra le mani un po’ di polvere e trac, ti materializzava quello di cui avevi bisogno: ti serviva una pietra della fortuna?, lui ti materializzava una pietra della fortuna, ti serviva la calma?, lui ti materializzava un amuleto che trasmetteva la calma, ti servivano dei soldi?, lui ti materializzava dei soldi, credo, non sono sicuro, insomma, quella lì di materializzare le cose era la sua caratteristica che lui, Sai Baba, fin da quando era piccolo, si diceva nel film, ne era dotato, tant’è vero che quando andava alle elementari materializzava le merendine per i suoi compagni di classe, si diceva nel documentario, ecco io, quando avevo poi letto l’inizio del libro su Saddam Hussein del futuro vicedirettore ad personam a me era venuto da immaginarmi la classe di Saddam, dopo che lui aveva rubato e calpestato le merendine dei suoi compagni di classe, mi era venuto da immaginarmi che passasse Sai Baba e ripristinasse la situazione iniziale, ognuno con la sua bella merendina, la giustizia divina, in un certo senso.
Ecco questi due casi, quello di Sai Baba e quello di Saddam Hussein, come son stati raccontati da quei fedeli e da quel giornalista, a me sembrano belli perché sono veri, non sono inventati, non sono frutto dell’immaginazione, perché se fossero frutto dell’immaginazione, quei due personaggi lì, un Sai Baba così buono e un Saddam così cattivo, sarebbero forse un po’ stucchevoli, un po’ prevedibili, dentro un romanzo.
Se queste due storie fossero dentro un romanzo, bisognerebbe che a Sai Baba ogni tanto gli venisse il nervoso e che Saddam ci fosse qualcuno a cui vuole bene, quella sarebbe una cosa interessante, da raccontare, forse. Un buono che sia minimamente anche un po’ cattivo, ogni tanto e un cattivo che ogni tanto abbia un’inspiegabile attrazione per i buoni sentimenti e le buone azioni.
E con questo finisce la penultima puntata di questa piccola serie, ne manca solo una, dove proveremo a dire cosa succede quando avete scritto un romanzo e dovete trovare qualcuno che ve lo pubblichi.

[uscito ieri sulla Verità]

Sciame sismico

domenica 8 Luglio 2018

Una mia amica mi aveva detto di sentire il discordo del presidente della Repubblica, che il presidente della repubblica, ce n’era uno nuovo, quando aveva fatto il suo primo discorso ne parlavano tutti così bene, e quella mia amica mi aveva detto «Prova a sentirlo», e io l’avevo cercato in rete e avevo cominciato a sentirlo e dopo un po’ m’era venuto in mente di quando avevo fatto l’attore, in teatro, nel 2007, a Napoli, e avevo un regista che mi aveva fatto vedere che io avevo dei gesti parassiti, cioè gesti che vivevano su di me senza che me ne accorgessi e mi aveva detto che in scena, quando recitavo, quei gesti parassiti lì li avrei dovuti eliminare.
E dopo, a ripensare a quella cosa che mi aveva detto il regista, io mi ero accorto che quando parlavo, e quando scrivevo, davo voce a delle espressioni parassite che vivevano su di me senza che me ne accorgessi, e in uno dei libri che ho scritto avevo provato a farne una lista e avevo trovato che se uno era ricco, era sfondato, se aveva la barba, era folta, se c’era un fuggi fuggi, era generale, se si parlava di acne, era giovanile, se c’eran delle tecnologie, eran nuove, se c’era un nucleo, era familiare, se c’era un’attesa, era dolce, se c’era una marcia, era funebre, oppure nuziale, se c’era un andirivieni, era continuo, se c’eran delle chiacchiere, erano oziose, se c’era un errore, era fatale, se c’era un delitto, era efferato, se c’era un’ impronta, era indelebile e questo era il primo nucleo che l’avevo scritto e letto tante di quelle volte che ogni volta che lo rileggevo mi sembrava come di recitare il rosario.
Erano singolari, questi nessi sostantivo aggettivo, per lo meno per due motivi, per il fatto che, quando si dice, per esempio, ricco sfondato, l’aggettivo, sfondato, siamo così abituati, che ogni ricco sia sfondato, che quell’aggettivo lì, non ci dice niente di quel ricco di cui stiamo parlando, non lo qualifica, è un aggettivo qualificativo che non fa il suo mestiere, non qualifica niente
E poi anche per il fatto che io, quando usavo queste espressioni a me sembrava di parlare, in realtà io non parlavo, ero parlato, cioè non dicevo quel che volevo dire io, dicevo quel che voleva dire la lingua (parassita).
E in rete, su un sito dove ogni tanto scrivevo delle cose, www punto paolonori punto it, con l’aiuto dei lettori del sito avevo provato a allungare questa lista di espressioni parassite e avevo trovato che se c’è un quadro, è allarmante, se c’è uno sciopero, è generale, se c’è una folla, è oceanica, se c’è un lupo, è solitario, se c’è un cavallo, è di Troia, se c’è una botte, è di ferro, se c’è un terrorista, è islamico, se c’è un porto, è delle nebbie, se c’è un silenzio, è di tomba, se c’è un ombra, è di dubbio, se c’è una morsa, è del gelo, se c’è una resa, è dei conti, se c’è una verità, è sacrosanta, se c’è una salute, è di ferro, se c’è una svolta, è epocale, se c’è un genio, è incompreso, se c’è un ok, è del senato, se c’è uno sciame, è sismico, se c’è un consenso, è informato, se c’è un secolo, è scorso, se c’è un pallone, è gonfiato, se c’è un cervello, è in fuga, se c’è una repubblica, è Ceca, se c’è un battesimo, è del fuoco, se c’è un dispiacere, è vivo, se c’è un tassello, è mancante, se c’è un imbarazzo, è della scelta, se c’è un dubbio, è atroce, se c’è una prova, è schiacciante, se c’è una tabella, è di marcia, se c’è un correlativo, è oggettivo, se c’è una linea, è editoriale, se c’è una leggenda, è metropolitana, se c’è una mente, è locale, se c’è un ente, è locale anche lui, se c’è una guerra, è santa, se c’è un motivo, è floreale, se c’è uno stato, è d’animo, se c’è un quartiere, è generale, se c’è una questione, è di principio, se c’è un problema, è un altro, se c’è una sostanza, è stupefacente, se c’è un mondo, è arabo, se c’è un caso, è letterario, se c’è un astro, è nascente, se c’è una stella, è cadente, se c’è un fiume, è carsico, se c’è una patata, è bollente, se c’è una disobbedienza, è civile, se c’è una cifra, è stilistica, se c’è una frattura, è insanabile, se c’è un velo, è pietoso, se c’è un pirata, è della strada, se c’è una malavita, è organizzata, se c’è una fiducia, è cieca, se c’è una storia, è vera, se c’è una luce, è propria, se c’è un beneficio, è d’inventario, se c’è un collegio, è docenti, se c’è una seduta, è stante, se c’è un tempo, è perduto, se c’è una delega, è in bianco, se c’è una sala, è operatoria, se c’è un pianto, è liberatorio, se c’è una macchina, è del fango, se ci sono dei giorni, son contati, se c’è un’impresa, è titanica, se c’è una fine, è del mese, se c’è un cuneo, è fiscale, se c’è una fila, è indiana, se c’è una fatalità, è tragica, se c’è una cifra, è stilistica, se c’è una corsia, è preferenziale, se c’è un corridoio, è umanitario, se c’è un anello, è mancante, se c’è un effetto, è collaterale, se c’è un consenso, è informato, se c’è un’avanguardia, è storica, se c’è una guerra, è civile, se c’è un sistema, è paese, se c’è una legge, è non scritta, se c’è un silenzio, è d’oro, se c’è un amore, è cieco, se c’è una maestà, è lesa, se c’è un’Europa, è a rischio, se c’è una notte, è dei tempi, se c’è un viale, è del tramonto, se c’è una parabola, è discendente, se c’è un minimo, è sindacale, se c’è una data, è da destinarsi, se c’è un’avanguardia, è russa, se c’è una catastrofe, è umanitaria, se c’è un tessuto, è urbano, se c’è un moto, è ondoso, se c’è un compromesso, è bieco, se c’è un gestore, è telefonico, se c’è un compartimento, è stagno, se c’è una torre, è pendente, se c’è una tornata, è elettorale, se c’è un ascensore, è sociale, se c’è un dente, è avvelenato, se c’è una manovra, è finanziaria, se c’è una campagna, è pubblicitaria, se c’è un universo, è parallelo, se c’è un gioco di parole, è intraducibile, se c’è un condizionale, è d’obbligo, se c’è parere, è a mio modesto, se c’è un disordine, scusatelo.
E nel discorso del presidente della repubblica, Sergio Mattarella, nei primi minuti, se c’era un saluto, era rispettoso, se c’era un pensiero, era deferente, se c’era un momento, era difficile, se c’era una carta, era fondamentale, se c’era un consiglio, era superiore (e della magistratura), se c’era un’unità, era nazionale, se c’era una prova, era dura, se c’era un’unione, era europea, se c’eran dei diritti, eran fondamentali, se c’era un popolo, era italiano, se c’era un bene, era comune, se c’era un capo, era dello stato, se c’era un garante, era della costituzione, se c’era un giro, era di consultazioni, se c’era un esercizio, era della sue funzioni, se se c’era un arbitro, era imparziale, e lì mi ero fermato e mi ero chiesto “Ma come mai, ne han parlato tutti così bene?”.

[uscito ieri sulla Verità]

Niente, Qualcosa, lunatici e rompicoglioni

sabato 30 Giugno 2018

L’altra volta abbiamo detto che, per scrivere una cosa che valga qualcosa, servono urgenza e disperazione, e abbiamo detto che questa settimana avremmo dato dei consigli per provocarle: cominciamo dalla disperazione.
Una volta una signora, alla presentazione di un libro, mi aveva chiesto, con tono dispiaciuto: «Ma perché lei scrive così?».
L’accento cadeva sul «Così», e era stata una domanda che mi aveva fatto piacere, perché voleva dire che era un «così» che la metteva in difficoltà e, se una cosa che hai scritto mette qualcuno in difficoltà, non è detto per forza che sia un brutto segno.
Con un gruppo di una cinquantina di persone, da tre anni circa, stiamo provando, a Bologna, a fare una rivista.
Ci troviamo, per farla, una volta ogni due mesi in una saletta al primo piano della Biblioteca Salaborsa. All’inizio avevamo pensato di chiamarla Niente, la rivista, perché ci piaceva poter rispondere, a chi ci chiedesse «Dove stai andando?», «A far Niente».
Poi, fare Niente si è rivelato un compito al di sopra delle nostre forze e ci siamo trovati, qualche mese dopo, a immaginare un’altra rivista, che adesso, è incredibile, uscirà veramente, e si chiama Qualcosa.
Qualcosa sarà una rivista che, anche se pubblicata da una casa editrice romana, che si chiama Sempremai, avrà un cuore emiliano, se così si può dire, e sarà una rivista che deriva da due altre riviste della fine del secolo scorso e dell’inizio di questo, Il semplice e L’accalapiacani, che si facevano una a Modena e l’altra a Reggio Emilia, la prima guidata da Gianni Celati e Ermanno Cavazzoni, la secondo con la collaborazione, tra gli altri, di Daniele Benati e Ugo Cornia.
Celati, Cavazzoni, Benati e Cornia hanno diffuso, anche attraverso le cose che hanno scritto sul Semplice e sull’Accalappiacani, una poetica che viene riconosciuta come la poetica dei cosiddetti lunatici, che è una poetica che ha portato a grandi libri, ma che, alla fine, dopo tanti anni, come etichetta, come forse tutte le etichette, ha l’effetto, un po’, di depotenziare quello a cui viene appiccicata.
Un discorso, se diventa il discorso di un lunatico, è un discorso che sì, è divertente, o anche molto divertente e, essendo divertente, o molto divertente, non è una cosa da prendere sul serio, è da lunatico.
Io, tra l’altro, apro una parentesi, quando faccio una lettura in pubblico, e ne faccio tante, il commento che mi dà forse più fastidio, alla fine, non è «Ma perché scrive così?», è: «Molto divertente».
Mi viene un nervoso, quando sento dire che una cosa che ho scritto è «Molto divertente», che non riesco a spiegarlo, chiusa la parentesi.
Alla fine del primo numero di Qualcosa, quando uscirà, in settembre, ci sarà scritta una frase che dice «Noi non siamo lunatici, siamo rompicoglioni». Cioè siamo della gente che si propone, tra le altre cose, di dare fastidio (che era un po’ il compito che si proponeva, tra gli altri, lo scrittore austriaco Thomas Benhard, se non ricordo male).
Su Ivan Puni, che è uno dei grandi pittori della grande avanguardia Russia, un centinaio di anni fa Viktor Šklovskij ha scritto un pezzo che dice: «Ivan Puni è l’uomo timido per eccellenza. Ha capelli neri, parla piano, suo padre era italiano. Ho veduto di questi timidi sullo schermo cinematografico. È come un imbianchino che se ne va con una lunga scala sulla spalla. Modesto, silenzioso. Ma la scala urta i cappelli dei passanti, fracassa i vetri, ferma i tram, distrugge case. Puni invece dipinge. Se dovessimo raccogliere tutte le recensioni scritte su di lui in russo e spremerne il furore, si potrebbero raccogliere alcuni secchi di liquido molto corrosivo e inoculare con questo la rabbia a tutti i cani di Berlino. I cani a Berlino sono 500.000. Puni offende la gente perché non si beffa mai di nessuno. Dipinge un quadro, lo guarda, pensa: Io non c’entro, doveva essere fatto così. I suoi quadri sono irrevocabili e obbligatori. Puni vede lo spettatore, ma è organicamente incapace di tenerne conto. Accetta gli insulti dei critici come un fenomeno atmosferico» (la traduzione è di Maria Olsoufieva). Ecco, io credo che, per uno che scrive, l’atteggiamento da tenere, nei confronti della critica, sia quello di Puni, considerarla un fenomeno atmosferico, guardare fuori dalla finestra e pensare «To’, nevica», e rimettersi a lavorare. Credo però che sia una cosa impossibile. Quando il più grande scrittore russo di tutti i tempi, Aleksandr Puškin, era agonizzante, dopo il duello che l’avrebbe ucciso, sembra che gli abbiano chiesto se voleva dire qualcosa ai critici, e sembra che lui abbia risposto «Dite a quelli che hanno voluto ferirmi che ci sono riusciti», che è una risposta che mi sembra così bella forse perché è vera.
Un’altra domanda che fanno, ogni tanto, a chi scrive dei libri è: «Perché scrive?». Senza «così». «Perché scrive?». E basta. Che anche questa, uno poi può avere anche un buon carattere, ma se uno che ha letto un tuo libro ti chiede «Perché scrive?», è difficile che sei contento, dovrebbe essere evidente da quello che hai scritto, perché scrivi, secondo me.
Però fai finta di niente, e rispondi, e a me quando me l’han chiesto ho risposto «Per disperazione», che era vero, poi però, quando ho sentito la risposta che aveva dato Garcia Marquez, quando l’avevano chiesto a lui: «Perché la gente che mi vuole bene mi voglia ancora più bene», mi son ricordato di quando, da piccolo, ho scoperto che non tutti mi volevano bene, che mi era sembrata una cosa incredibile, e ingiusta, e mi ricordo, tanti anni dopo, nel 1999, quando stava per uscire il mio primo romanzo, non me lo dicevo chiaramente, ma, sotto sotto, io pensavo che l’uscita del mio primo romanzo avrebbe rimediato a questa ingiustizia, che sarebbe piaciuto a tutti e tutti avrebbero capito che bisognava volermi bene.
Ecco.
Non succede così.
Quindi: per la disperazione, non preoccupatevi, viene da sola.
Per l’urgenza, il primo romanzo che scrivete, se scriverete un romanzo, dovrete pensarci voi. Dal secondo in poi, voi firmate un contratto e poi, per i primi nove-dieci mesi non fate niente.
Cominciate a lavorare quando mancano quindici, massimo venti giorni alla consegna. Vedrete che l’urgenza, viene anche l’urgenza. Basta saperla aspettare.

[Uscito ieri sulla Verità]

Gli ingredienti

sabato 23 Giugno 2018

Ci sono dei libri che sono fatti in un modo che ti viene da chiederti di cosa son fatti. Gli ingredienti, proprio. La letteratura, di cosa è fatta?
Io per esempio me lo son chiesto quando ho letto un libro di un notaio napoletano che si chiama Salvatore De’ Matteis, una raccolta di testamenti olografi, che sono i testamenti scritti a mano, che, essendo scritti di pugno dal defunto, dopo che è defunto hanno valore legale, e vanno conservati, e questo notaio napoletano aveva accesso a una raccolta di testamenti olografia e ne ha scelti una cinquantina e ne ha ricavato un libretto che Sellerio ha pubblicato nel 1992 col titolo Essendo capace di intendere e di volere e il sottotitolo Guida al testamento narrativo.
Sono testamenti con il titolo, De Matteis per ciascuno ha scelto un titolo, e il primo si intitola Spiacente di avervi conosciuto, e fa così:
«Ho scritto questo mio testamento la notte del 23 aprile 1954 alle ore 01 cioè praticamente il giorno 24 aprile 1954 mentre ero in servizio in clinica. Credo che questa data è significativa perché coincide col mio onomastico. Per la speciale ricorrenza di cui mai una volta vi siete ricordati, ho deciso di fare io a voi un regalo: vi comunico di avervi diseredato.
Ho infatti alienato gradualmente il mio patrimonio immobiliare e donato il danaro che ne ho ricavato. Mi auguro di avere tempo e abilità sufficiente per sottrarvi ciò che resta. Nel caso tuttavia che mi sopravvivessero dei beni, ne nomino beneficiario la clinica sperando che conoscendo i nostri reciproci sentimenti, abbiate l’orgoglio e il buon gusto di non impugnare il presente testamento.
Siete dunque sul lastrico e da qualche anno vivete al di sopra delle vostre possibilità. Quando ne sarete informati, sarà tardi per ogni rimedio e avrete finalmente un buon motivo per portarmi rancore per tutto il resto della vostra vita.
Spiacente di avervi conosciuto. Mi auguro di non rivedervi mai più».
Il secondo si intitola Se morirebbe prima mia moglie, e fa così:
«Testamento di me medesimo malato lucido di mente, scritto a mano contro mia moglie Maria Cannavacciuolo maritata Bonomo Gennaro che sarei io.
Se morirebbe prima mia moglie di me sari grato a San Gennaro a ceri e fiori finacché campo. Ma lei si è sempre curata bene e schiatta di salute alla faccia mia che non ce speranza, io credo.
Approfitto della controra che stà stravaccata sopralletto per scrivere nascostamente su carta tipo igienica il mio lascito testamento di robbe poche ma stentate, col sudore della fronte per tutta una vita onesta ma sfortunata. Che se si sveglia sono mazzate.
Non avendo la infamona fatti i figli perché è arida di panza e di cuore, lascio il basso di abitazione a mio nipote Libberato figlio di mio fratello Vittorino.
A mia nipote Itala, sempre figlia di Vittorino, lascio per dote la mobilia con la biancheria di correto, l’anello mio, la catenina e il curniciello della bonanima del nonno.
Non ciò altro.
Quando sarò morto dovete cercare il mio testamento qui presente dietro all’armadio. Se non lo cercate dietro all’armadio non lo trovate, e allora è inutile che lo cercate».
Il terzo, si intitola Se no, basta il pensiero, e fa così:
«In nome di Dio che mi assiste nella verità.
Soltanto oggi, deluso e amareggiato per il comportamento disamorato di mia moglie la quale mi ha lasciato pur sapendo delle condizioni di salute in cui mi trovo, in piena facoltà e in pieno ferragosto esprimo la mia sacra volontà testamentaria mai espressa prima d’ora.
A mia moglie non lascio niente, nemmeno le impronte su questo foglio che non sono lagrime ma gocce di sudore. La legge se dispone diversamente si assume la responsabilità di contrariarmi nel giusto.
Veramente io non so che resta dopo gli scilacquamenti della predetta, ma se resta qualcosa nomino erede universale mia nipote. Se no, basta il pensiero. E così sia».
Il quarto e ultimo si intitola Secondo consiglio di Peppe, e fa così.
«Testamento lografo da me confezionato secondo consiglio legale di Peppe a’ paglietta che se ha sbagliato l’affogo dall’aldilà morto e ‘bbuono. Dice che, essendo moribondo, la mia volontà, scritta a mano con la data e la firma, vale pure cogli errori e sparambio il notaro. Perciò io mi fido e scrivo come posso.
In primis. Tutto ai miei figli e niente a mia moglie diciamola così, che mai la voletti sposare e feci bene. Madre disamorata. Chi sa dove sta.
In secundis. Leggittima a Michele figlio, leggittima a Elena figlia, leggittima a Gaetano figlio dal loro caro padre estinto qui presente che li ha riconosciuti al tribunale e li vuole bene come sanno.
In terzis. Superchio a sorema e al soprastante Peppe suo marito, con onere di cura fino a morte fatta e esequie. Se muore Peppe prima di me, che mi pare possibbile datosi che sta scassato buono per vizzi di gioventù, il superchio va tutto a sorema con onere di cura e di esequie come sopra.
In fundis. Mi arraccomando le esequie. Non facciamo le solite figure di pezzente.
Ecco. Queste, secondo me, sono quattro pagine incantevoli, quattro miniature bellissime che hanno però, in quanto pagine di letteratura, una caratteristica strana: non è letteratura, non sono state scritte per essere lette, è una forma di letteratura involontaria che è venuta così bene, secondo me, che viene da dirsi che, se uno chi scrive riuscisse a scrivere con quell’indifferenza lì, a inventarsi delle espressioni come «In piena facoltà e in pieno ferragosto», o a costruire una frase così cattiva come «Siete dunque sul lastrico e da qualche anno vivete al di sopra delle vostre possibilità», o una frase così insensata come «Se non lo cercate dietro all’armadio non lo trovate, e allora è inutile che lo cercate », ecco, io ho l’impressione che quello lì sarebbe sulla buona strana. E allora, per finire: qual è, questa strada? Di cosa sono fatti, questi quattro pezzetti memorabili? Io direi che sono fatti di due ingredienti principali, l’urgenza, e la disperazione. E la prossima settimana proveremo a ragionare su come fare per provocare, nella propria vita, urgenza e disperazione. Arrivederci.

[Uscito ieri sulla Verità]

Un capolavoro

sabato 16 Giugno 2018

Giorgio Manganelli diceva che c’è una condizione indispensabile per scrivere un libro: l’incompetenza. «Ci vuole un incompetente – scriveva – perché l’opera funzioni. Eccomi qua, – aggiungeva, – sono la persona giusta: totalmente irresponsabile e assolutamente squalificato». Ecco, se siete incompetenti, possiamo andare avanti, e se siete competenti in qualche campo, basta che cerchiate di non scrivere di quello, e va bene lo stesso. Dopo, data per assodata l’incompetenza, e ricordato che, per scrivere un libro, le due cose che servono, secondo l’insegnamento di Charles Bukowski, sono «una macchina da scrivere e una sedia», e che è importantissimo, soprattutto, trovare la sedia, tutti i giorni, fatte queste premesse, tutti i metodi son buoni, secondo me. Il mio non è cambiato tanto, nel corso del tempo. Nel senso che i primi libri che ho scritto erano dei libri un po’ strani, come mi ha detto un ragazzo che si chiama Giacomo che ho conosciuto quando, alla fine del 1999, mi sono trasferito a Bologna dopo aver pubblicato i primi due libri che ho pubblicato Questo Giacomo è stato una delle prime persone che ho conosciuto, a Bologna, e, siccome mi aveva conosciuto, aveva letto un libro che avevo scritto io che era uscito in quei giorni, che si chiamava Bassotuba non c’è, e quando mi aveva rivisto mi aveva detto che gli era piaciuto ma l’aveva trovato, appunto, strano, un po’ il contrario dei libri di avventura, mi aveva detto. Che nei libri di avvenuta, mi aveva detto Giacomo, tipo I tre moschettieri, ogni pagina ci son dei duelli, delle agnizioni, dei delitti, delle tragedie, e tu volti le pagine perché vuoi vedere cos’altro succede. «Nel tuo romanzo, – aveva concluso Giacomo, – tu volti le pagine perché vuoi vedere se finalmente succede qualcosa». Non so se era un complimento, ma io, devo dire, quando Giacomo mi aveva detto questa cosa, ero stato contento. Perché per me, come lettore, la letteratura è quella cosa che ti trasforma in una macchina che volta le pagine. Che poi il libro sia costruito sul tutto o sul niente, è una cosa che io trovo del tutto secondaria, come lettore. Io sono stato un lettore appassionato sa di libri costruiti sul tutto, come Il conte di Montecristo, di Alexandre Dumas, o La cripta dei cappuccini, di Joseph Roth, o Guerra e pace, di Lev Tolstoj, che di libri costruiti sul niente, come La coscienza di Zeno, di Italo Svevo, nel quale succede che uno che vuol smettere di fumare non riesce a smettere di fumare, allora va in analisi e non riesce a finire l’analisi, e per far dispetto al suo analista scrive il libro, o come Il deserto dei tartari di Dino Buzzati, nel quale succede che uno aspetta tanto l’arrivo dei tartari, per tutta la vita, e i tartari non arrivano, e quando lui va in pensione arrivano i tartari, e a lui, tutto sommato, non dispiace neanche tanto, o come il primo spettacolo teatrale che ho visto in francese, al Piccolo teatro di Milano, Aspettando Godot, di Beckett, dove, com’è noto, la cosa che succede è che Godot non arriva neanche lui, come i tartari.
Introduco un altro elemento autobiografico, mi sembra sia utile, e mi sento giustificato dal fatto che, ormai, buona parte della narrativa contemporanea è di un genere chiamato autofiction, che sono quei testi in cui la figura dell’io narrante e dell’autore si possono confondere. Quando la moda dell’autofiction si è diffusa in Italia, una dozzina di anni fa, per via di alcuni romanzi francesi che erano stati tradotti, una scrittrice italiana ha chiesto, su Twitter, se c’era qualche autore italiano che avesse mai praticato questa autofiction, e io, mi ricordo, mi era venuto da scrivere «Dante Alighieri». E non era questo l’elemento autobiografico, quanto il fatto che io, il mio primo romanzo l’ho cominciato a scrivere che avevo otto anni, ed era un romanzo dove un signore partiva per un lungo viaggio con il suo servitore in seguito a una scommessa. Avevo appena letto il primo romanzo lungo che ho letto, Il giro del mondo in ottanta giorni, e pensavo che i romanzi fossero tutti così, come inizio, e il mio lo scrivevo a penna, e mia mamma me lo batteva a macchina, su dei fogli azzurri, mi ricordo ancora, al tatto, quei fogli azzurri, un po’ pelosi, mi piacevano moltissimo, ero molto fiero, e pensavo che mio nonno, che, in casa, era quello che leggeva di più, sarebbe stato fiero anche lui, invece lui, mi ricordo, mi aveva chiesto «Ma tu lo sai, come va a finire?».
E io gli avevo detto «No». E lui mi aveva detto «Ah, be’, allora…». E io c’ero rimasto così male che non ero più andato avanti e il romanzo successivo l’ho cominciato venticinque anni dopo, quando di anni ne avevo trentatré. E quando l’ho cominciato, non avevo idea di come sarebbe finito, e così per tutti i libri che ho scritto poi dopo, e li ho scritti lo stesso.Non è indispensabile, avere una storia, per scrivere un libro; la storia, o la non storia, la si può trovare anche strada facendo. Una volta ho parlato di questa possibilità di scrivere senza scaletta e senza sapere dove si va a parare con Carlo Lucarelli, che, com’è noto, scrive dei gialli, e lui mi ha raccontato che, il primo romanzo che ha scritto, quando ha cominciato pensava che il colpevole fosse uno, poi, a metà, si è accorto che non era quello, pensava fosse un altro, poco prima della fine si è accorto che non era neanche l’altro era un terzo.
Un’idea, anche bella, quando poi la traduci in parole, in frasi, in pause, in dialoghi, in personaggi, diventa tutta un’altra cosa e io, col tempo, ho imparato a cercare di non pensare, ma a sforzarmi di fare, tutti i giorni, quella cosa difficilissima di cui parlava Bukowski, trovare la sedia.
Quanto al problema del pubblico, Anton Čechov, a un suo conoscente aveva consigliato di non preoccuparsi, del pubblico. Che tanto, gli aveva detto «Per qualsiasi sciocchezza che viene stampata, si trova subito qualcuno disposto a giurare che è un capolavoro». E a un altro conoscente, Ivan Bunin, Čechov aveva confessato: «Secondo me, finito di scrivere un racconto bisognerebbe buttare via l’inizio e la fine. È lì che noi scrittori concentriamo la maggior parte delle bugie».

[Uscito ieri sulla Verità]

Tutto è bene quel che finisce bene

sabato 9 Giugno 2018

Un romanzo, quando arriva in libreria, non tutti quelli che lo prendono in mano lo leggono, però tutti, o quasi tutti, quelli che lo prendono in mano, leggono il titolo. È un fatto: il titolo di un romanzo ha molti più lettori del romanzo; allora, uno dei consigli che mi sento di dare a chi voglia scrivere un romanzo, è di scegliere un bel titolo.
Uno scrittore sudamericano che si chiama Augusto Monterroso secondo me ha scritto il libro con il titolo forse più bello che io abbia mai letto: Opere complete e altri racconti. È una raccolta di racconti uno dei quali si intitola Opere complete, quindi il titolo è serissimo e perfettamente coerente.
Monterroso ha scritto anche un decalogo dello scrittore in dodici punti (lo scrittore che decidesse di adottare questo decalogo è libero di scartarne due a sua scelta), il cui primo punto recita: «Quando hai qualcosa da dire, dillo; quando non ce l’hai, anche. Scrivi sempre», che mi sembra che sia una buona politica, per chi vuole scrivere un romanzo.
Uno che faceva così sembra fosse Georges Simenon, e adesso ne parliamo, prima però diciamo ancora un paio di cose sui titoli: Guerra e pace, in un fase intermedia di lavorazione, Tolstoj l’aveva chiamato Tutto è bene quel che finisce, e l’impressione che si ha quando si sa questa cosa è che non sarebbe stato lo stesso romanzo, se si fosse intitolato così, così come Il Maestro e Margherita sarebbe stata un’altra cosa, probabilmente, se si fosse intitolato Il consulente con lo zoccolo, che era il suo primo titolo; mi è difficile immaginare che un libro che si intitola Il consulente con lo zoccolo possa essere un bel libro, e mi è difficile pensare che Bulgakov fosse contento quando, a chi gli chiedeva cosa stesse scrivendo, era costretto a rispondere «Un romanzo», «E come si intitola?», «Il consulente con lo zoccolo».
Un’altra cosa che si legge spesso, dei libri che si prendono in mano, è l’epigrafe, quella citazione che sta all’inizio, tra il titolo e il testo: io, per andare avanti bene a lavorare a un romanzo, devo avere un titolo e un’epigrafe che mi piacciono. Nel libro che sto scrivendo adesso, per esempio, che si intitola Che dispiacere, ho messo, per il momento, un’epigrafe di Leo Ortolani che dice: «Non puoi capire cosa spinga un uomo ad andare nello spazio, fino a che non hai una figlia adolescente».
Un’epigrafe di cui son stato invidioso è l’epigrafe del romanzo di Giorgio Biferali L’amore a vent’anni, uscito quest’anno per Tunué, che è presa da La schiuma dei giorni, di Boris Vian, e dice: «Poi, tutte le volte che le dicevo qualcosa, lei rispondeva “Anch’io”, e viceversa… Così alla fine, tanto per fare un’esperienza esistenzialista, ho provato a dirle “Signorina, la amo tanto”, e lei ha detto “Oh”.
Dopo, una volta esaurite queste importantissime pratiche paratestuali, cioè una volta che si sono scelti titolo e epigrafe, uno dei primi problemi che si trova davanti una persona che vuol scrivere un romanzo, è come chiamare i personaggi che ci vuol mettere dentro. Georges Simenon è uno che di romanzi ne ha scritti parecchi, e li scriveva abbastanza rapidamente, raccontano di una telefonata che a Simenon aveva fatto Alfred Hitchcock, che sembra gli avesse chiesto «La disturbo? Sta scrivendo un romanzo? Se sta scrivendo un romanzo non si preoccupi, aspetto al telefono che finisca»; ecco, Simenon, che scriveva così velocemente, dicono che la parte più difficile del suo lavoro fosse trovare il nome del protagonista, che girasse in tondo per casa per delle ore finché non l’aveva trovato e che poi, una volta trovato il nome, il romanzo veniva giù come magicamente dal suono di quel nome.
Io, però, se dovessi dire un nome che c’è nei romanzi di Simenon, a parte Maigret, non saprei dirne neanche uno, su Simenon non son tanto preparato meglio se torniamo alla letteratura russa.
Quando il protagonista del Cappotto di Gogol’ nasce, orfano di padre, alla madre propongono i nomi Mokkij, Sossij o Chozdazat.
Lei ci pensa un po’ poi dice «Ma che razza di nomi».
Allora aprono il calendario e leggono i nomi: Trefilij, Dula, e Varachasij.
«Ma è un castigo!», dice la madre.
Cercano allora ancora nel calendario e saltano fuori: Pavsikakij e Vachtisij.
La madre allora dice: «Se è così, meglio che prenda il nome del padre. Il padre si chiamava Akakij. E sia Akakij anche il figlio», e viene fuori Akakij Akakievič, un copista la cui vita cambia nel momento in cui decide di comprare un cappotto nuovo, il momento in cui entra nella sua vita «l’idea eterna del futuro cappotto», ovvero di «un ospite luminoso in forma di cappotto», quasi «una piacevole compagna di vita» (cappotto, šinel’, in russo è femminile).
Boris Ejchenbaum scrive che Gogol’ «dava un’importanza eccezionale ai nomi dei suoi personaggi; li cercava e li trovava dappertutto: «il cognome del protagonista delle Anime morte, Čičikov, fu trovato su una casa, a quei tempi non mettevano i numeri sulle case, ma il cognome del proprietario. Il cognome del generale Betriščev, nella seconda parte delle Anime morte, Gogol’ l’ha trovato nel registro reclami di una stazione di posta, e ha detto a un suo amico che, alla vista di quel cognome, gli sono apparsi subito la figura e i baffi grigi del generale».
È come se nel nome ci fosse già il destino del personaggio. Quando lo zar Nicola legge, pochi giorni dopo la sua uscita, nel giugno del 1840, il romanzo di Lermontov Un eroe dei nostri tempi, all’inizio pensa che l’eroe, il protagonista del libro, sia il primo personaggio che si incontra nel romanzo, il maturo capitano Maskim Maksimyč, ma si sbaglia: il destino di Maksim Maksimyč è segnato dal patronimico che ripete il nome, e è il destino di un personaggio comico, è il destino di chi, come l’Akakij Akakevič del Cappotto di Gogol’, o l’Il’ja Il’ič Oblomov dell’Oblomov di Gončarov, o il cane Pallino, che diventa bolscevico in Cuore di cane di Bulgakov e viene ribattezzato Poligraf Poligrafovič Pallinov, non può essere un eroe.
Gli eroi si chiamano come il vero protagonista del romanzo di Lermontov, un giovane ufficiale che allo zar Nicola non piacerà affatto: Grigorij Aleksadrovič Pečorin.
Per finire, le cose si possono complicare con gli pseudonimi.
Io, per esempio, in quel romanzo che sto scrivendo, e che si intitola Che dispiacere, ci ho messo dentro sei giornalisti che scrivono con pseudonimo, cinque maschi e una femmina, e gli pseudonimi dei maschi sono: Ivan Piri, Ivan Dali, Ivan Geli, Ivan Taggi e Igor Miti; della femmina: Iris Toranti.

[Uscito ieri su La verità]

Il posto dove abitavo

sabato 2 Giugno 2018

Quando ho cominciato a studiare russo, nel 1988, trent’anni fa, uno dei problemi che c’erano allora, era trovare qualcuno con cui parlare: oggi basta montare su un autobus, si sente qualcuno che parla russo, ma allora, di russi, in Italia, ce n’eran pochissimi. Così noi che studiavamo russo, allora, eravamo magari bravi a leggere e a scrivere, ma parlare era un altro discorso. Anche per quello avevano un discreto successo dei seminari estivi dove si studiava russo per otto-dieci ore al giorno e dove, soprattutto, a insegnartelo, c’eran dei russi, dei russi veri, della gente che il russo lo parlava e con la quale lo potevi parlare, e in uno di questi seminari un’insegnante di russo, resasi conto delle difficoltà, dei freni che avevamo a parlare, della paura che avevamo di sbagliare, questa insegnante, una volta che aveva un po’ perso la pazienza di fronte a una studentessa che non riusciva a spiccicare parola, aveva detto, rivolta a tutta la classe: «Rebjata, čtoby govorit’, nado govorit’», che più o meno significa: «Ragazzi, per parlare bisogna parlare».
Ecco, io credo che una cosa simile si possa dire per chi vuole scrivere.
Una volta hanno chiesto a Bukowski cosa ci vuole per scrivere e sembra che lui abbia risposto: «Per scrivere ci voglion due cose, una macchina da scrivere e una sedia. Delle volte è difficile trovare la sedia».
Insomma per scrivere, bisogna scrivere, tutti i giorni, trovare la sedia tutti i giorni, non basta pensare che si vorrebbe scrivere.
E una cosa bella, una volta che si comincia, è che sei contento che hai cominciato a scrivere, ma non ti basta, aver cominciato a scrivere, vorresti anche scrivere delle cose belle, e il dubbio che credo accompagni tutti quelli che cominciano a scrivere è: ma le cose che ho scritto, son belle oppure no?
E così è successo a me, quei primi mesi in cui provavo a scrivere: mi ricordo la posizione in cui era il mio computer, abitavo a Parma, al numero 3 di via Caduti di Montelungo, tra largo Dispersi dell’Egeo, viale Dispersi e Morti in Russia, via Martiri di Cefalonia e via Anna Frank, e avevo il computer su un tavolo che era contro un muro, e scrivevo guardando questo muro e la mia attenzione era tutta verso l’alto, il triangolo che percorrevo per ore, nella mia testa, era tra me, il computer e il cielo della letteratura dal quale cercavo di attingere quelle parole, quelle espressioni, quella sintassi e quel lessico leggeri, incantevoli, nuovi e antichi contemporaneamente che avrebbe fatto di me un maestro di stile, e scrivevo in una lingua dalla quale non si capiva, non si doveva capire, che io ero di Parma, nel cielo della letteratura non c’era Parma, non c’eran confini comunali, provinciali, regionali, c’eran delle altre cose, c’era il premio Nobel, c’eran dei busti un po’ impolverati, c’era la legge Bacchelli e dietro, là in fondo, c’era la crusca, e i cruscanti, che si intravedevano appena ma restava il dubbio sulla loro natura a metà tra l’umano e il divino, delle cose così.
E le facevo leggere ai miei amici, le cose che scrivevo, e loro mi dicevano che erano belle, ma io avevo il dubbio che me lo dicessero un po’ perché eran gentili e un po’ perché così mi calmavo: una mia amica, mi ricordo, mi aveva detto che una cosa che le avevo dato era bellissima; un mese dopo, gliene avevo data un’altra, mi aveva detto che avevo fatto dei grandi progressi e io avevo pensato “Ma se era già bellissima quella prima, come ho fatto a fare dei grandi progressi?”.
Poi quella mia amica aveva mandato una cosa che avevo scritto a una rivista di letteratura che si faceva allora a Modena, il Semplice, si intitolava, e mi avevan chiamato e io ero andato a una riunione e lì era successa una cosa stranissima che io avevo capito come fare a capire se le cose che scrivevo erano belle o non erano belle.
Perché lì al Semplice loro chiedevano a chi voleva pubblicare dei racconti nella loro rivista di leggerli ad alta voce di fronte alle venti persone che c’erano lì, e io lì mi sembra di averlo capito lì, questo fatto: che quando leggi una cosa in pubblico ad alta voce, se è bella, diventa ancora più bella, se è brutta, diventa ancora più brutta.
E quando ero tornato a casa da quella riunione del Semplice lì, lì non avevo letto niente, quando ero tornato a casa avevo cominciato a leggermele da solo, per conto mio, ad alta voce, le cose che avevo scritto, e mi ero accorto di una cosa stranissima che non avrei mai detto cioè che ogni tanto, siccome io non ero sicuro del valore delle cose che scrivevo, io ogni tanto ci mettevo dentro una parola desueta, colta, complicata, perché volevo che almeno il lettore si accorgesse del fatto che ero uno che aveva studiato: va be’, pensavo, i miei racconti non saran molto belli, però almeno che si veda che li ha scritti uno che si è laureato in lingue e letterature straniere e ho dato sette esami di filologia, non è una cosa da tutti, pensavo (io ero molto fiero del fatto di avere dato sette esami di filologia, non so perché). E a rileggerle ad alta voce era vero, si vedeva, che era un laureato, che le aveva scritte, quelle cose che avevo scritto, ma il fatto che le avesse scritte un laureato che aveva dato sette esami di filologia non le rendeva più belle, anzi, togliere quelle parole desuete messe lì per far bella figura sarebbe stata forse la prima cosa da fare, per mettere a posto quei racconti lì.
Allora io dopo, quando ho cominciato a leggere i miei racconti ad alta voce, era successo che naturalmente io, sapendo che poi li avrei dovuti leggere ad alta voce per capire se erano belli o no, avevo cominciato a scriverli un po’ come se fossero parlati, in un certo senso, e all’improvviso quel triangolo di cui parlavo prima, io, computer e cielo della letteratura, era diventato un triangolo con un vertice infinito, cioè era diventato un triangolo io computer mondo, e improvvisamente le cose da scrivere mi venivano su da tutte le parti, e certe volte avevo l’impressione, per strada, che certe cose che vedevo e che sentivo succedessero apposta per andare a finir nei romanzi, e improvvisamente i romanzi avevano cominciato a riempirsi di una lingua che non era una lingua neutra e non era una lingua scritta da uno che ci teneva che si vedesse che aveva dato sette esami di filologia, era una lingua che aveva molto a che fare con l’italiano che si parlava a Parma, che era il posto dove abitavo, se non l’ho già detto. Ecco. A me più o meno è successo così.

[Uscito ieri sulla Verità]