Capitolo 25
25. Quindi
Detto questo, non ci sarebbe molto altro da dire, sulla crisi, prendiamoci una piccola pausa.
25. Quindi
Detto questo, non ci sarebbe molto altro da dire, sulla crisi, prendiamoci una piccola pausa.
Adesso poi la smetto, ma, a proposito di crisi, forse ha senso raccontare una cosa che dicono sia successa quando uno scienziato americano, che aveva lavorato ai voli nello spazio americani, ha incontrato un suo collega sovietico che aveva lavorato ai voli nello spazio sovietici e sembra gli abbia detto: «Ascolta, noi, alla Nasa, abbiamo speso diciotto milioni di dollari per creare delle penne speciali che potessero funzionare anche in assenza di gravità.
E voi come avete fatto?», aveva chiesto lo scienziato americano a quello sovietico.
«Be’, – aveva risposto quello sovietico, – noi abbiamo usato le matite».
1. Il titolo
Negli anni venti del novecento, un critico russo che faceva parte di quel gruppo di critici che eran stati chiamati, per offenderli, formalisti, e che avevano assunto questo nome e avevan finito per chiamarsi loro stessi formalisti e che in Italia, dal momento che erano russi, eran stati chiamati, da allora, formalisti russi, questo critico russo che si chiamava Jurij Tynjanov ha scritto, negli anni venti del novecento: «La prosa russa attraversa un periodo di crisi. (D’altra parte, anche la poesia attraversa un periodo di crisi. In generale, è difficile ricordarsi di un periodo in cui non attraversavano un periodo di crisi)».
2. Chi sono io
Adesso, dire chi sono io è difficile, si rischia di dire chi mi credo di essere, però qualcuno devo pur essere, allora diciamo che, un’identità vale l’altra, diciamo che mi chiamo Barigazzi, Bernardo Barigazzi, che ho un diploma da ragioniere, una laurea in lingua e letteratura russa, che sono nato a Parma, nel 1963, che c’è una bambina che ha dodici anni e ha l’avventura di esser mia figlia e che io, quando scrivo di lei, la chiamo la Battaglia, e che c’è sua mamma che ci siamo conosciuti perché ha studiato russo anche lei, anche se lei, a dir la verità, ha studiato storia dell’Unione Sovietica insomma c’è questa ragazza che io, quando scrivo di lei, la chiamo Togliatti, per la passione che aveva lei per Togliatti, il migliore. Ecco. Secondo me può bastare. Abito a Casalecchio di Reno, anche, attaccato a Bologna. E sono il groupie italiano di Fredrik Sjöberg, se può servire. Altrimenti è lo stesso.
3. Uno più uno due
Allora io, che sono nato nel 1963 a Parma, vale a dire in Italia, ho l’impressione che, da quando mi ricordo io, la poesia italiana, la prosa italiana, l’economia italiana, la giustizia italiana, la pubblica istruzione, italiana, la sanità, italiana, la politica, italiana, lo sport, italiano, attraversino, da allora, un periodo di crisi; a me sembra di esser sempre vissuto in un periodo di crisi e delle volte mi chiedo cosa succederebbe se passasse, la crisi, e ho come l’impressione che ne sentirei la mancanza.
[Primi tre capitoli di Strategia della crisi, che esce oggi]
Ho ricominciato a scrivere un romanzo, e ho ricominciato a pensare che non ce la farò, che è una cosa, secondo me, che quando uno scrive un romanzo va bene, pensare che non ce la si fa, ammesso che poi lo si scriva, se invece poi non lo si scrive non va tanto bene, mi sembra.
Cioè, in pratica, mi sembra: per scrivere un romanzo bisogna farcela pensando che non ce la si fa, che poi, in sostanza, è una cosa che provo a dire, ma più in lungo, in un libro che si intitola Strategia della crisi che ho ricevuto le copie adesso (esce in libreria il 18 di aprile, se non sbaglio) e che provo a metterne su un pezzo stanotte, alle 00:02.
Nel prossimo libro che esce, di quelli che ho scritto io, mi sembra di aver detto le cose essenziali nella prima pagina, così dopo son libero di dire quello che voglio.
Dopo, un’altra cosa che testimoniava la crisi della politica era l’espressione, riferita ai politici, «lavorare sul territorio».
Cioè il fatto che ci fossero dei politici che lavoravano sul territorio comportava il fatto che ce ne fossero degli altri che non lavoravano, sul territorio, e se non lavoravano sul territorio, dove lavoravano?
Su delle mongolfiere?
Su dei satelliti?
Dove?
[Dalla Strategia della crisi, in preparazione]
A un mio amico che mi ha chiesto come mai non ho parlato anche di altri politici, di una parte politica anche importate, che ha governato il paese per tanti anni, ha detto.
«Non so, per esempio, – mi ha detto quel mio amico, – ».
«Oppure, – mi ha detto poi dopo, – ».
«Oppure, – mi ha detto alla fine, – ». E io gli ho risposto che non ne ho parlato perché a me sembra che, quei politici lì, non esistono mica.
E non esiste neanche quel mio amico che mi ha chiesto come mai non cito anche altri politici, me lo sono inventato perché mi sembrava che si dovesse precisare questa cosa e allora mi sono inventato un amico che non ce l’ho che io, di amici, in generale, ci son dei momenti che mi sembra di non averne neanche uno, di amici, la crisi dell’amicizia, in un certo senso.
[La strategia della crisi, in preparazione]
In questi giorni in cui molti fanno delle classifiche sull’anno che sta per finire, i libri più belli, i film più belli, i dischi più belli, mi è venuto da chiedermi qual è stata la parola che ha caratterizzato il 2016, e mi è venuto da rispondermi che è la parola crisi. Che è una parola che, a me, sono strano, lo so, piace molto.
Negli anni venti del novecento, un critico russo che faceva parte di quel gruppo di critici che eran stati chiamati, per offenderli, formalisti, e che avevano assunto questo nome e avevan finito per chiamarsi loro stessi formalisti e che in Italia, dal momento che erano russi, eran stati chiamati, da allora, formalisti russi, questo critico russo che si chiamava Jurij Tynjanov ha scritto, negli anni venti del novecento: «La prosa russa attraversa un periodo di crisi. (D’altra parte, anche la poesia attraversa un periodo di crisi. In generale, è difficile ricordarsi di un periodo in cui non attraversavano un periodo di crisi)».
Ecco, io, che sono nato nel 1963 a Parma, ho l’impressione che, da quando mi ricordo io, la poesia italiana, la prosa italiana, l’economia italiana, la giustizia italiana, la pubblica istruzione, italiana, la sanità, italiana, la politica, italiana, lo sport, italiano, attraversino, da allora, un periodo di crisi; a me sembra di esser sempre vissuto in un periodo di crisi e delle volte mi chiedo cosa succederebbe se passasse, la crisi, e sono quasi sicuro che ne sentirei la mancanza.
Come dice Bazarov, il protagonista del romanzo di Turgenev Padri e figli (1862), quando sta per morire, e dopo una notte terribile si sveglia al mattino che sembra che stia un po’ meglio e al padre, sollevato, che gli dice «Grazie a Dio: è venuta la crisi, è passata la crisi», lui, Bazarov, risponde: «Ma pensa! Cosa significano le parole! L’ha trovata! Ha detto ‘crisi’ e si è consolato. È stupefacente che l’uomo creda ancora nelle parole», dice Bazarov nel 1862 e io, 154 anni dopo, nel 2016, devo confessare che, al potere delle parole, ci credo ancora (sono strano, lo so).
Io sono talmente strano che a me piacciono più i delinquenti dei santi, che preferisco scrivere, per dire, sulla Verità che sul Fatto quotidiano.
Dev’essere per via delle cose che leggo.
Lev Tolstoj, da una qualche parte, dice che lui, nella sua vita, ha conosciuto qualche santo e un po’ di delinquenti, e i santi che ha conosciuto lui dicevano tutti di essere dei delinquenti, e i delinquenti che ha conosciuto lui dicevano tutti di esser dei santi.
E da una qualche altra parte Viktor Šklovskij, un altro di quei formalisti russi, mi sembra che dica che lui, tutte le volte che cominciava a scrivere un libro, aveva sempre l’impressione che non ce l’avrebbe mai fatta, a finirlo, che fosse un’impresa al di sopra delle sue forze e poi a un certo momento si svegliava un mattino che il libro, non avrebbe saputo spiegare in che modo, era finito.
Ecco, io che di mestiere scrivo dei libri, ho l’impressione che quel metodo lì di Šklovskij, accettare e confessare la propria condizione di incapaci, di minorati (di delinquenti, anche, forse, persino), sia l’unica maniera per riuscire a fare, tutti gli anni (più di una volta l’ano, anche, a volte), quella cosa incredibile, scrivere un libro, e quando mi trovo nella condizione di pensare che non ce la posso fare, e mi ci trovo tutti gli anni, più di una volta l’anno, spesso, adesso ormai, vent’anni dopo aver deciso di fare di questa cosa incredibile, scrivere i libri, il mio mestiere, io decodifico questo stato, questo panico, questa condizione di crisi, questo fatto che va tutto male, nel senso che ci siamo, siamo nel panico, siamo in crisi, va tutto male, siamo in mezzo a una nebbia che non si vede più niente e va bene così; va tutto male quindi va bene così, andiamo avanti e anche questa volta verrà fuori un libro che poi, alla fine, mi diranno perfino che è un libro divertente, che io, quando mi dicono che una cosa che ho scritto è divertente io rimango perplesso perché le cose che scrivo non mi sembrano divertenti.
Mi viene in mente una cosa che sembra abbia detto Syd Barret, il leader dei Pink Floyd, che sembra che abbia detto, una volta, che secondo lui i giovani si dovrebbero divertire ma lui non ci è mai riuscito.
Ecco io, che non son più neanche giovane, ma da degli anni, ormai, la cosa che mi piace di più, a me, è lavorare, e non è una cosa divertente, è una cosa faticosa e bellissima, quando ci si riesce, e quando non ci si riesce, io spesso non ci riesco, e quando non ci riesco mi dico «Benissimo, non ci sono riuscito».
[uscito ieri sulla Verità]
Dopo, oggi, una ragazza in un bar di Bologna che aveva saputo che di mestiere scrivevo dei libri mi aveva chiesto se scrivevo libri contemporanei e io non sapevo cosa rispondere perché, per un vivente, e io, devo confessare, avevo l’impressione di esser vivente, era abbastanza difficile non scrivere libri contemporanei, anche volendo.
Una volta ero su un treno, su uno di quei treni regionali che a me piacciono più dei treni Eurostar, degli Intercity, dei Freccia Rossa e dei Freccia Argento, non so come mai, mi fanno venire in mente delle espressioni come appena appena, o quasi quasi, o così così, o meno meno (come sei meno meno), che sono espressioni che rimandano a un mondo che non ce la fa quasi più che mi piace moltissimo, una condizione del genere, un’altra volta mi era venuto da pensare che io ormai era una vita, che ero sul punto di rassegnarmi, e forse era per quello, che mi trovavo così bene su quei treni, perché sembravan dei treni che non ce la facevan quasi più, che erano sul punto di rassegnarsi e una volta, tornavo da Cesena, ero stato alla facoltà di architettura a ragionare di case emiliane, esistono le case emiliane?, e quelle romagnole?, c’è un’architettura emiliana?, e un’architettura romagnola?, ero stato due ore nella facoltà di architettura a farmi delle domande del genere e quando ero montato sul treno avevo guardato la posta elettronica, sul mio telefono, avevo visto che avevo ricevuto una mail dal negozio elettronico della Feltrinelli avevo pensato che io non le volevo ricevere, delle mail dal negozio elettronico della Feltrinelli, e avevo cercato in fondo alla mail il modo di cancellarmi, avevo trovato una scritta che diceva: se non vuole ricevere più questa newsletter clicchi qui, e ci avevo cliccato e mi era comparsa una scritta che diceva: «La tua richiesta di disiscrizione è stata registrata correttamente; da questo momento non riceverai più la nostra newsletter. Nel caso in cui dovessi ricevere ancora mail, è perché sono state pianificate prima della ricezione della tua richiesta di disiscrizione».
Che a me era sembrato un messaggio stranissimo per due motivi: per via del fatto che mi dicevano che non avrei ricevuto più le loro mail e che forse ne avrei ricevute ancora, e per via del fatto che in questo messaggio si usava per due volte una parola che non avevo mai visto e che non conoscevo: disiscrizione.
Che io, se fosse stato qualcun altro a scrivermi, avrei pensato a un errore, ma siccome la mail veniva dalla Feltrinelli, che è una delle più importati case editrici italiane, ho pensato che non erano loro che avevan sbagliato, ero io, che ero rimasto indietro.
La lingua, del resto, lo sappiamo, è fatta così, va verso la semplificazione, uno si iscrive e si disiscrive: iscrizione – disiscrizione. Perché usare cancellazione, che è brutto? Disiscrizione è molto più facile e intuitivo, e il meccanismo si può applicare anche ad altri processi, uno per esempio nasce e poi disnasce.
Pensate a un dialogo del tipo «Come stai?», «Male», «Come mai?», «È disnato mio cugino»; uno viene promosso, o dispromosso, «A me alle superiori mi han dispromosso due volte»; uno al mattino si veste, alla sera si disveste «Vieni a letto!», «Aspetta che mi disvesto», ho pensato l’altro giorno sul treno a disandare a Cesena che ci ero andato a parlar di architettura e stavo disandando a Bologna dove sarei dovuto poi andare in biblioteca a disprendere in prestito un libro, poi a fare la spesa, poi a casa a dispranzare, poi alla sera avrei fatto lezione alla scuola elementare di scrittura emiliana (una discuola di scrittura) e poi, finalmente, verso mezzanotte, avrei potuto dissvegliarmi, che mi ero disaddormentato alle sei mattino, quel giorno lì, una bella disriposata.
[Sempre dalla Strategia della crisi, sempre in preparazione]