Kao-O-Wang

domenica 20 Febbraio 2022

Mille scuole, mille lune si avvicenderanno nei cieli letterari, ma il poeta sarà sempre un Kao-O-Wang, un nonostante, una sardina decapitata, – e perciò un «fool», rifiutato dall’Indifferenza e sommerso da quell’Eterno Buon Senso che oggi chiamiamo Civiltà dei Consumi, – un fuori sesto, un X a disagio, che si sente colpevole di tutto, senza aver colpa di nulla.

[Angelo Maria Ripellino, La fortezza d’Alvernia, Milano, Rizzoli 1967, pp. 133-134 se qualcuno di voi sa cos’è un Kao-O-Wang me lo dice?]

Congedo

martedì 5 Gennaio 2016

angelo Maria Ripellino

Noi viviamo dentro caselle da cui gli altri non ci permettono di uscire. Noi siamo solo l’immagine che gli altri hanno costruito di noi. Per anni ed anni ho scritto e stracciato poesie, vergognandomi di scrivere. Il mio mestiere di slavista, la mia etichetta depositata mi relegarono sempre in una precisa dimensione, in un ranch, da cui m’era rigorosamente vietato di evadere. D’altronde, nel lungo imperversare del Dopoguerra, quando sparavano a vista sui giocolieri e sui trasgressori dell’imperante realismo e dell’Alto Vernàcolo dei Robivecchi e poi su coloro che non accettassero la squallidezza di un’arte chiamata «industriale», non c’era posto per le mie metafore, tassate di barocchismo. E la mia confidenza con la poesia di altri popoli, e in specie con quella dei russi, dei boemi, dell’espressionismo tedesco e dei surrealisti francesi, era un peccato di cui avrei dovuto pentirmi.
Tutto appariva sbagliato in quello che avevo scritto (e che stavo per lacerare): la mia ansia di immettere nel tessuto dei versi le consuetudini della pittura, di trattar le parole come tubetti di colori schiacciati e di attrarle in viluppi fonetici, le trovate allegoriche, la buffoneria sottesa di lugubre, le deformazioni, il mio guardare la vita grottescamente come il calvario d’un clown, il quale si ingegni di continuare a suonare su un logoro violino che va ogni momento in frantumi.
Come in giovinezza, ancor oggi scriver poesie è per me soprattuto dare spettacolo, ogni lirica è un esercizio di giocolería e di icarismo sul filo dello spàsimo, un tentavo di tenere a bada la morte con tranelli verbali, bisticci e negozi di immagini. È un’estrema tensione, uno scontro, da cui si esce ogni volta malconci, intontiti, con la schiena rotta, come un toro de lidia, que se desmanda huyendo sin direción…
Mille scuole, mille lune si avvicenderanno nei cieli letterari, ma il poeta sarà sempre un Kao-O-Wang, un nonostante, una sardina decapitata, – e perciò un «fool», rifiutato dall’Indifferenza e sommerso da quell’Eterno Buon Senso che oggi chiamiamo Civiltà dei Consumi, – un fuori sesto, un X a disagio, che si sente colpevole di tutto, senza aver colpa di nulla.

[Angelo Maria Ripellino, La fortezza d’Alvernia, Milano, Rizzoli 1967, pp. 133-134]

Una visita inopportuna

domenica 3 Gennaio 2016

ripellino 2

Venne da me l’Epilogo, e posò
il nero cappello sul mio tavolo.
Finse di chiamarsi Rustavièli,
ma aveva i piedini di vetro,
un fratello del nonostante di ieri.
Ah, il suo guarnello di fumo, i suoi ceri,
il suo fare esequiale, con piccole arcadie, la sagrestia degli inchini, la faccia batràcica.

Signor Epilogo, gli dissi con circospezione:
non c’è bisogno di voi, non occorre sipario.
Non alzate la perfida tabella: «Fine»,
non subornate i poeti, perché si tacciano.
Non tutto si spegne nell’ultima pagina
al vostro segnale di fiacca e di morte. Mettete
spalliere di spadaccini all’intorno
e folle di volpi e pedanti e gendarmi. A che serve.
I versi continuano oltre la fine. Si sciolgono
in nuvole, in musiche, in lacrime, in sangue.

[Angelo Maria Ripellino, La fortezza d’Alvernia, Milano, Rizzoli 1967, p. 87]

Come elefanti di mògano

venerdì 1 Gennaio 2016

ripellino 2

Come elefanti di mògano
dormono ormai tutti i rossi divani
ai quattro punti della vita.
Come scimmie pendono dai cieli
intere famiglie di lampadari,
che non hanno più nulla da illuminare
con le loro natiche rossicce.
Jack lo sventratore, l’autunno è arrivato,
e già le strade scintillano, fosforescenti
fasciami di bianche ossa spolpate.
L’autunno brucia col suo sigaro le foglie,
le foglie morenti che esprimono
i fiacchi sussurri del mondo,
la nostra stanchezza di vivere.

[Angelo Maria Ripellino, La fortezza d’Alvernia, Milano, Rizzoli 1967, p. 111]