Tramonti
Qualche anno fa mi ha telefonato un mio amico che fa lo scenografo e ha un cognome bellissimo, si chiama Tramonti, che per uno scenografo mi sembra molto azzeccato, a me piacerebbe, se fossi uno scenografo, chiamarmi Tramonti: Clic.
Qualche anno fa mi ha telefonato un mio amico che fa lo scenografo e ha un cognome bellissimo, si chiama Tramonti, che per uno scenografo mi sembra molto azzeccato, a me piacerebbe, se fossi uno scenografo, chiamarmi Tramonti: Clic.
C’è un grande romanzo russo dell’ottocento, Un eroe dei nostri tempi, di Lermontov, il cui protagonista, Pečorin, è un giovane molto elegante che si compiace di non aver mai ripetuto, in vita sua, per due volte la stessa battuta; io non sono giovane, e nemmeno elegante, e le ripetizioni mi piacciono sia nei discorsi che faccio che nelle cose che scrivo
[Domani, 12 maggio, alle 21, sul mio profilo Instagram, leggo il racconto Felicità? che è uscito su K n. 4]
e mi ero accorto che felicità, in dialetto parmigiano, non esisteva.
I parmigiani, la felicità, non sapevan neanche cos’era, non sapevano neanche dove stava di casa, non sapevano neanche com’era pitturata; non c’era, in parmigiano, un parola per dire felicità, non si diceva, in parmigiano, sono stato felice, si diceva «A ston stè ben», son stato bene.
Così come non c’era, in dialetto parmigiano, un’espressione per dire «Ti amo»; si diceva «At voj ben», ti voglio bene; e io, per quello, non ho mai detto a nessun «Ti amo», nella mia vita, e se lo dicessi ho l’impressione che mi crollerebbe la faccia, che dovrei poi raccogliere i pezzettini della mia faccia sparsi per tutta la stanza.
A mor, in dialetto parmigiano, non significa Amore, significa Io muoio. Che è una cosa diversa.
Cioè io, a pensarci, la mia lingua, il pozzo delle mie emozioni, io l’ho scavato a Parma, e quando devo lavorare con loro, con le mie emozioni, devo usare le parole che ho sepolto a Parma, devo tornare a Parma e buttare giù il secchio in quel pozzo lì che ho scavato a Parma non posso fare altrimenti.
E la lingua che uso, sia quando parlo che quando scrivo, è italiano, ma è un italiano che ha le sue radici nella lingua dei miei nonni, che avevano fatto la terza elementare e che parlavano un italiano che a me sembra meraviglioso.
Quando ho cominciato a scrivere, nel 1996, 16 settembre, il giorno dopo la morte di mia nonna Carmela, io mi ricordo che ho preso l’impegno, con me stesso, di scrivere cose che potesse capire mia nonna Carmela, e la felicità, mia nonna Carmela, non sapeva cos’era, ma non perché era infelice, perché era di Parma.
[Nel numero 4 di K c’è una cosa che ho (tra)scritto io che parla della felicità]
Dicembre 1910, periodo di aridità e di cupezza. Ora il diario serve a Kafka soprattutto per registrare osservazioni sulla propria incapacità di scrivere. «Con cosa giustifico il fatto che oggi non ho ancora scritto nulla? Con nulla» si legge in un frammento. E subito dopo: «Ho continuamente nell’orecchio una invocazione “O tu venissi, tribunale invisibile».
[Roberto Calasso, K, Milano, Adelphi 2005, p. 23]