sabato 19 Febbraio 2022
La reputazione rivoluzionaria resiste soltanto ancora perché non procede l’edificazione dello stato. Dopo il terrore rosso, esaltante, sanguinoso della rivoluzione attiva, venne in Russia il terrore ottusi, silenzioso, nero della burocrazia, il terrore della penna e del calamaio. Si potrebbe dire: quando Dio, nella Russia sovietica, dà a qualcuno un impiego, gli dà anche una psicologia borghese. Con una creatura così borghese come è Dio, secondo l’opinione di tutti i marxisti incalliti, la cosa non mi meraviglierebbe. Ma quando è un potere rivoluzionario ad assumersi la funzione divina di attribuire gli impieghi, allora non si può non stupirsi che nella Russia di oggi lo spirito piccolo-borghese da mezzemaniche determini in così larga misura la vita pubblica, la politica interna, la politica culturale i giornali l’arte, la letteratura e gran parte della scienza. Tutti sono impiegati. Ogni persona che passa per strada porta un distintivo. Ogni individuo è una sorta di agente pubblico.
[Joseph Roth, Viaggio in Russia, traduzione di Andrea Casalegno, Milano, Adelphi 1981, p. 10]
mercoledì 15 Novembre 2017
A Vienna lo aspettava la fidanzata, figlia del fabbricante di matite Hartmann. Il tenente non sapeva più nulla di lei, se non che era bella, brava, ricca e bionda. Quei quattro attributi l’avevano abilitata a diventare la sua fidanzata.
Lei gli spediva al fronte lettere e pasticci di fegato, qualche volta un fiore secco da Heilgenkreuz. Lui le scriveva ogni settimana su carta da lettera militare azzurro-scuro, con la matita copiativa inumidita, lettere brevi, concisi resoconti della situazione, notizie.
Da quando era fuggito dal campo non aveva più saputo nulla di lei. Che gli fosse fedele e lo aspettasse, non dubitava.
Che lo aspettasse fino al suo ritorno, non dubitava. Ma che avrebbe smesso di amarlo quando, ritornato, le fosse stato davanti, gli pareva altrettanto certo. Quando si erano fidanzati, lui era un ufficiale. Il grande dolore del mondo lo rendeva, allora, più bello, la vicinanza della morte lo faceva più grande, la sacralità di un defunto circondava l’uomo vivo, la croce sul petto richiamava la croce su un tumulo. Se poi si contava su un lieto fine, dopo la marcia trionfale delle truppe vittoriose sulla Ringstrasse, c’era da aspettarsi il colletto dorato da maggiore, la scuola di guerra e finalmente il grado di generale, il tutto avvolto nel tenero suono dei tamburi della marcia di Radetzky.
Ma adesso Franz Tunda era un giovane senza nome, senza credito, senza rango, senza titolo, senza soldi e senza professione, non aveva né patria né diritti.
[Joseph Roth, Fuga senza fine, traduzione di Maria Grazia Paci Manucci, Milano, Adelphi 2002, pp. 14-15]
mercoledì 20 Settembre 2017
Il consigliere di corte Sabbaüs Kreitmeyr era direttore del II Ginnasio statale imperial-regio, un filologo di chiara fama, con molti cosiddetti ‘agganci’, amato dagli allievi, ben visto dai superiori e frequentatore della buona società. Sua moglie mandava avanti una ‘grande casa’ e organizzava serate e balli che avevano lo scopo di maritare l’unica figlioletta del direttore, Lavinia, come questi l’aveva un po’ impropriamente chiamata.
Il consigliere di corte Sabbaüs Kreitmeyr era, come la maggior parte degli studiosi di vecchio stampo, un marito sottomesso, riteneva giusto tutto ciò che la sua rispettabile consorte ordinava e credeva in lei come nelle regole della grammatica latina, le uniche giuste. La sua Lavinia era una ragazzina molto ubbidiente, non leggeva romanzi, occupava il suo tempo unicamente con la mitologia antica e ciò nonostante era innamorata del suo giovane maestro di piano, il virtuoso Hans Pauli.
[Joseph Roth, Il busto dell’imperatore, traduzione di Vittoria Schweizer, Firenze, Passigli 2011, p. 116]
giovedì 2 Marzo 2017
Tolstoj dice che in Guerra e pace, la cosa più importante che c’è dentro, per lui, è il fatto che i cosiddetti grandi uomini hanno un significato minuscolo, nella direzione degli eventi storici. Cioè che gli eventi storici, dei grandi uomini non ne tengono mica conto, quando devono decidere dove andare, se non ho capito male. Anche per quello, mi sembra, si capisce Joseph Roth quando dice che avere in comune il presente è un legame più forte che avere in comune un modo di pensare; per via degli eventi storici che ci dirigono tutti, gli uomini grandi e quelli piccolini, ammesso che ne esitano dei grandi e dei piccolini, di cosiddetti uomini, intesi come persone.
mercoledì 21 Dicembre 2016
Un giorno, disperato perché ogni lavoro era del tutto incapace di soddisfarmi, divenni giornalista. Non appartenevo alla generazione di persone che inaugurano e concludono la pubertà scrivendo versi. E neanche a quella più recente ancora, che raggiunge la maturità sessuale con il calcio, lo sci e il pugilato. Sapevo solo pedalare su una modesta bicicletta con il contropedale, e il mio talento letterario non andava al di là di un diario nel quale scrivevo alcuni circostanziati appunti.
Ho sempre avuto poco cuore. Da quando sono in grado di pensare, penso in modo spietato. Quand’ero ragazzo davo le mosche in pasto ai ragni. I ragni sono rimasti i miei animali preferiti. Di tutti gli insetti sono, con le cimici, i più intelligenti. Se ne stanno quieti al centro di una ragnatela che si sono costruiti da sé e si affidano al caso, che provvede a nutrirli. Tutti gli animali danno la caccia alla preda. Del ragno tuttavia si può dire che è ragionevole e saggio nella misura in cui ha scoperto che dare disperatamente la caccia a tutti gli esseri viventi non serve a niente e che soltanto l’attesa è fruttuosa.
[Joseph Roth, Le città bianche, traduzione di Fabrizio Rondolino, Milano, Adelphi 2011 (9), p. 11]
lunedì 15 Febbraio 2016
La piazza davanti al Palazzo d’Inverno è ampia, e la neve ne sfuma i confini. È smisurata come piazza quanto la Russia è smisurata come regno. Attraverso i vetri delle finestre, che hanno una tonalità giallastra, la si guarda come si guarda un lago gelato. Sale da essa una malinconia di pietra e di ghiaccio, come sale la nebbia da un lago vivo. Le persone che la attraversano sono minuscole, sembrano fiammiferi travestiti da uomini. Racchiusa tutt’intorno, unita alla città soltanto da strette vie d’uscita, è come un distacco della città da se stessa, un modo di esprimere il suo esser remota. Lo zar era minuscolo di fronte a questa piazza, un piccolo prigioniero.
[Joseph Roth, Viaggio in Russia, traduzione di Andrea Casalegno, Milano, Adelphi 2007 (9), p. 171]
venerdì 29 Gennaio 2016
Un uomo non è piatto o banale solo perché guadagna tanti soldi, così come non è profondo o intelligente perché sta vicino a una macchina. Fra il lavoratore e il suo datore di lavoro, che si fronteggiano con tanta ostilità, ci sono più somiglianze di quel che entrambi non sappiano. Avere in comune il presente è un legame più forte che avere in comune un modo di pensare.
[Joseph Roth, Viaggio in Russia, traduzione di Andrea Casalegno, Milano, Adelphi 2007 (9), p. 13]
domenica 25 Ottobre 2015
Il governo è una cosa che sta sopra gli uomini, così come il cielo sta sopra la terra. Ciò che viene dal governo può essere un bene o un male, ma è comunque una cosa grande, ultrapotente, insondata e insondabile, benché talvolta risulti comprensibile anche alla gente comune.
Alcuni commilitoni imprecano contro il governo. Secondo loro dal governo non hanno ricevuto altro che torti. Come se la guerra non fosse una necessità! Come se i dolori, le amputazioni, la fame e la miseria non fossero le sue logiche e inevitabili conseguenze! Che cosa pretendevano? Erano uomini senza Dio, senza Imperatore, senza Patria. Insomma, dei pagani. «Pagani»: non c’è termine migliore per tutto ciò che viene dal governo.
[Joseph Roth, La ribellione, traduzione di Renata Colorni, Milano, Adelphi 2009 (7), p. 10]
mercoledì 23 Gennaio 2013
Avrei invidiato chiunque avesse avuto la fortuna di viaggiare in compagnia di una così bella donna. Ma poiché quel tale ero io, non mi invidiavo affatto.
[Joseph Roth, Il secondo amore, traduzione di Gabriella de’ Grandi, Milano, Adelphi 2011, p. 42]
domenica 16 Settembre 2012
Egli aveva una sua teoria tutta particolare sui coralli. Secondo lui erano, come si è detto, animali marini che, in certo modo, solo per accorta modestia si fingevano alberi e piante, così da non essere attaccati o divorati dai pescecani. Era l’anelito dei coralli quello di essere colti e portati sulla superficie della terra dai palombari, essere tagliati, levigati e infilati per adempiere infine il vero scopo della loro esistenza diventare il monile di belle contadine. Solo lì, sul collo bianco e saldo delle donne, nell’immediata vicinanza dell’arteria pulsante, sorella dei cuori femminili, rinascevano a nuova vita, acquistavano splendore e bellezza ed esercitavano il loro innato magico potere di attrarre gli uomini e ridestare le loro voglie amorose. È vero che il vecchio Dio Geova aveva creato tutto da sé, la terra e suoi animali, i mari e tutte le loro creature. Al Leviatano, però, che si torceva sul fondo primevo di tutte le acque, Dio stesso aveva affidato per un certo tempo, cioè fino all’arrivo del Messia, il governo sugli animali e i vegetali dell’oceano, segnatamente sui coralli.
Stando a quanto è narrato qui, si potrebbe credere che il mercante Nissen Piczenik fosse noto come un tipo strampalato. Ma non era assolutamente così. La vita di Piczenik nella cittadina di Progrody era quella di una persona modesta, che non dava nell’occhio, i cui racconti sui coralli e il Leviatano venivano presi assolutamente sul serio, cioè come informazioni di uno del ramo, che doveva pur conoscere il suo mestiere, allo stesso modo che il mercante di tessuti sapeva distinguere le stoffe di Manchester dal percalle tedesco e il mercante di tè quello russo della famosa ditta Popoff dal tè inglese che l’altrettanto famoso Lipton forniva da Londra. Tutti gli abitanti di Progrody e dintorni erano convinti che i coralli sono animali vivi e che sulla loro crescita e condotta sotto il mare vigila il pesce primordiale Leviatano. Non c’era da dubitarne, dal momento che Nissen Piczenik in persona l’aveva raccontato.
[Joseph Roth, Il mercante di coralli, traduzione di Laura Terreni, Milano, Adelphi 2004, pp. 222-223]