domenica 2 Agosto 2009
Mi ricordo perfettamente una conversazione di tre anni fa, ai Giardini Margherita, con un bulgaro che faceva l’allentatore di pallavolo, su Jordan Radičkov. Lui diceva che gli piaceva molto Kulakov, che io allora non sapevo neanche chi era.
Abbiamo parlato dieci minuti, non l’ho più rivisto nella mia vita.
E mi vien da pensare che mi ricordo benissimo molte delle conversazioni che faccio (o mi sembra di ricordarle) perché sono sociopatico (o mi sembra di esserlo) e di conversazioni ne faccio pochissime (o mi sembra di farle).
venerdì 31 Luglio 2009
473 abitanti, noi due compresi, tanti ne aveva il paese, come ho detto prima, a parte il bestiame, i due mulini, un matto, due caldaie fisse per la preparazione dell’acquavite e una mobile tirata da cavalli che serviva soprattutto per farci acquavite abusiva: si riusciva a spostarla velocemente e così le autorità non ci pizzicavano; poi setto o otto recinti chiusi per il bestiame che circondavano il paese, una veggente, un insegnante, un assessore comunale, una guardia campestre, una chiesa incompiuta, tre fabbri zingari, una banda con cinque musicisti, due drogherie con due bettole, una cooperativa tuttofare con il nome laborioso di “Ape”, un macchinista di locomobile, non so quanti cacciatori, un giradischi marca “Zenit”, una macchina per maglieria, un unico tritacarne, un unico rasoio meccanico di proprietà della scuola, almeno cento muratori, uno in ogni casa; poi una mappa della Bulgaria e una dei due emisferi, un complicato macchinario scolastico con pallino e anello: se riscaldato, il pallino non riesce a passare attraverso l’anello, mentre quando è freddo ci passa, questo serviva per dare una prova evidente agli allievi che il metallo si dilata per il calore (come avrei imparato a suo tempo); e un altro anello con il quale i venditori di uova misurano se le uova sono piccole oppure verranno a costare di più, un autobus che passava una volta alla settimana senza fermarsi con il marchio “Uccello di fuoco” coperto di polvere fino alle sopracciglia, un trapano, una vagliatrice, alcune sveglie, dei nidi di cicogne, un telefono, vari piloni votivi contro grandine, siccità, inondazioni e calamità di qualsiasi provenienza naturale o divina, abbandonati e deserti, trasformatisi in serpai, un altro serpaio naturale appena fuori dal paese, vicino al fiume, dove d’inverno andavano a scavare i cercatori di tesori, cercando il capo serpente che, a quanto si diceva, era grosso come il tubo di una stufa e aveva un diamante sulla fronte; e poi ancora spiriti maligni, vampiri e demoni del fiume in quantità illimitata; difficilmente qualcuno sarebbe riuscito a fare il conto di quanti ce n’erano per ogni singolo abitante; più ancora una ragazza che aveva degli svenimenti, più le malattie degli uomini e del bestiame, più l’ignoranza, più noi due, io e la sordomuta. E così, più o meno, il lettore può avere una pallida idea di che cosa contenesse il paese in quella giornata estiva; un mondo stanco e stremato nell’afa, un universo chiuso in se stesso che non si muove in avanti, che non si muove in nessuna direzione, ma gira su se stesso e grazie a quel movimento rotazionale continua a restare attaccato al firmamento. Ecco perché oggi, voltandomi verso quell’universo e guardandolo salire nelle altitudini cosmiche, mi riempio d’ammirazione.
[Jordan Radičkov, Gente, gazze, cavalli, traduzione di Vera Petrova, Roma, Voland 1999, pp. 67-68]