Nei cieli

venerdì 14 Gennaio 2011

“All’inferno,” disse, cauto.
Poi, un minuto dopo, disse ancora: “All’inferno.”.
Poi lo ripeté nel modo in cui lo diceva Hane, strascicando le sillabe e cercando di dare ai proprio occhi l’espressione che avevano quelli di Hane quando lo diceva. Una volta Hane aveva detto: “Dio santo!”, e sua madre l’aveva rincorso e gli aveva detto: “Non voglio mai più sentirti imprecare così. Non pronuncerai il nome del Signore Dio Tuo invano. Hai capito?”, e con quello Hane si era zittito, se ricordava bene. Ah! Quella volta l’aveva proprio zittitio, sua madre, se ricordava bene.
“Dio santo,” disse.
Guardò deliberatamente per terra, e si mise a disegnare cerchi nella polvere col dito. “Dio santo!”, ripeté.
“Maledizione,” disse piano. Sentiva il calore salirgli alla faccia e il cuore battergli forte dentro il petto, tutt’a un tratto.” Al diavolo e all’inferno,” disse con voce quasi impercettibile. Si guardò alle spalle, ma non c’era nessuno.
“Al diavolo e all’inferno, Signore Iddio di Gerusalemme,” disse. Suo zio diceva sempre: “Signore Iddio di Gerusalemme.”
“Signore, Dio mio,” disse, “manda via i polli dall’aia”, disse, e cominciò a ridacchiare. Aveva la faccia molto rossa. Si alzò a sedere e si guardò le caviglia bianche che spuntavano dalle gambe dei pantaloni e finivano dentro le scarpe. Gli sembrava che non gli appartenessero. Strinse una mano intorno a ciascuna caviglia, piegò le ginocchia e appoggiò il mento sopra una di esse. “Padre nostro che sei nei cieli, non strapparmi tutti i peli,” disse, ricominciando a ridacchiare. Ragazzi, che sberle, se sua madre l’avesse sentito. Dio santo, gli avrebbe proprio rotto la testa.

[Flannery O’Connor, Il tacchino, in Tutti i racconti, tr. di Marisa Caramella, Milano, Bompiani 2009, pp. 52-53]