Quando sarete innamorati

domenica 29 Giugno 2014

Giorgio Manganelli, Il rumore sottile della prosa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un giorno, ero allora liceale, un professore disse: «Quando sarete innamorati, scriverete lettere bellissime». Se l’affermazione del professore fosse fondata, la storia della letteratura sarebbe in primo luogo formata da epistolari amorosi; invece non è così. Che strano. In una vita ci si innamora da una a dodici volte, ma gli epistolari memorabili, quelli da tesi di laurea, da premio Nobel, saranno qualche decina, mettendo assieme tutte le letterature del mondo. Forse meno. In realtà, chiunque abbia conosciuto innamorati – e capita a tutti – e si ricorda di se medesimo amoroso o amorosa, sa benissimo che chi è trafitto d’amore è un personaggio monotono, ripetitivo, dalla aggettivazione scialba e iterativa, affranto dal gravame dei luoghi comuni, emotivamente instabile, solipsista, convinto che l’oggetto del suo amore sia di interesse generale, e più stupito che irritato se nota una certa tendenza a cambiare discorso nei più cari e pazienti sodali. L’innamorato è socialmente una peste, un diluvio innocente, un farneticante, un ossessivo, e sebbene tutto ciò sia assai nobile e fondamentale del punto di vista della storia psicologica specifica, non è credibile che costui sia in grado di produrre testi letterari interessanti.

[Giorgio Manganelli, Il rumore sottile della prosa, Milano, Adelphi 2013 (2), pp. 75-76]

Due settimane fa

mercoledì 7 Maggio 2014

Giorgio Manganelli, Il rumore sottile della prosa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Due settimane fa, in un momento di particolare fulgore mentale, mi capitò di osservare che l’aggettivo ‘demistificante’ è un po’ ‘mistificante’: da allora non è accaduto nulla per farmi cambiare idea.

[Giorgio Manganelli, Il rumore sottile della prosa, Milano, Adelphi 2013 (2), p. 116]

 

Leggibili e illeggibili

martedì 29 Aprile 2014

Giorgio Manganelli, Il rumore sottile della prosa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tuttavia, togliendoci di dosso il povero orpello di un’ora di follia, che, come dice il Moravia con icastica immagine, non è che un «piccolo vortice che gira intorno il vuoto», vediamo se si possa concludere con qualche bella e nobile sentenza questa disputa tra leggibili e illeggibili. Sono ormai generazioni che le due schiere si fronteggiano, si misurano, con varia fortuna si contrastano. Da una parte, la letteratura che il Moravia definisce leggibile e giudica valida; una letteratura che si suppone, ahimè, non senza ragione, ‘umanistica’, che trae ispirazione ‘dalla vita’, che teorizza la propria affabilità e non di rado s’immagina o si propone di dar opera al miglioramento dell’umanità. Caratteristica minima della letteratura leggibile in questa interpretazione è la più radicale, e forse lievemente patologica mancanza di ironia.
D’altro canto, esistono scrittori che non coltivano una programmatica affidabilità; non lusingano il lettore, anzi non senza protervia aspirano a inventarselo da sé: provocarlo, irretirlo, sfuggirgli; ma insieme costringerlo ad avvertire, o a sospettare, che in quelle pagine oscure, velleitarie, acerbe, in quei libri faticosi, sbagliati, si nasconde una esperienza intellettuale inedita, il trauma notturno e immedicabile di una nascita. Il loro lavoro letterario si concentra su una tematica linguistica e strutturale; domina la coscienza dell’atto artificiale, anche innaturale della letteratura; e si celebra la fastosa libertà, l’oltraggiosa anarchia dell’invenzione di inedite strutture linguistiche. Discontinue schegge di retorica, coaguli linguistici inadoperabili per compiti di socievole sopravvivenza, infine, carattere supremamente distintivo, una lingua letteraria improbabile, fitta di citazioni, anche maniacale: una lingua morta. Non è letteratura affettuosa, non accarezza i cani, in genere non svolge compiti missionari.

[Giorgio Manganelli, Il rumore sottile della prosa, Milano, Adelphi 2013 (2), p. 101]

Un rovinoso compito ideologizzante

lunedì 21 Aprile 2014

Giorgio Manganelli, Il rumore sottile della prosa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se un angelo intervistatore mi ponesse una domanda sulla condizione attuale del romanzo, io penso che, con la compunzione necessaria, risponderei all’incirca così:
«Io provo uno scarso interesse per il romanzo in genere – inteso come protratta narrazione di eventi o situazioni verosimili – e talora un sentimento più prossimo alla ripugnanza che al semplice fastidio; ho l’impressione che oggi codesto genere sia caduto in tanta irreparabile fatiscenza che il problema è solo quello dello sgombero delle macerie, non del loro riattamento a condizioni abitabili; codesto sprofondamento ha, a mio avviso una causa precisa. I romanzieri sono persone serie, o si comportano come tali. Sono persuasi che nelle pieghe del loro raccontare debba essere disposto il coonestante aroma di una qualche idea generale, di un messaggio. Diventato nutrimento ideologico, insaporito di frammenti di idee, il romanzo è decaduto (come nota Giuliani) a messaggio edificante; questo di per sé non sarebbe ancora rovinoso, giacché le vie della salvezza letteraria sono infinite; ma ci rattrista constatare a qual punto i romanzieri siano riusciti nel loro compito. Non per caso, il romanzo appare nella letteratura europea proprio nel momento in cui decadono il gusto e l’intelligenza della retorica classica: quando, cioè, entra in crisi l’idea dell’opera letteraria come artificio; in particolare, l’esplosione ottocentesca del romanzo coincide con la liquidazione della retorica classica.
Dimentico che non v’è discorso letterario senza macchinazione, il romanziere si è via via persuaso che quel che egli faceva aveva qualcosa a che fare col mondo in cui viveva; critici pazienti gli hanno spiegato che, di quel mondo, il romanzo era volta a volta specchio, testimonianza, interpretazione; indotto da queste insinuazioni a sottovalutarsi, il narratore si è coinvolto in un rovinoso compito ideologizzante: non pago del messaggio, ha tentato la visione del mondo. Corrotto dalla serietà propria e dei critici, ha perso la limpida gioia della menzogna, l’irresponsabilità, la doppiezza morale, l’ilare arroganza che sono, a mio avviso, le virtù fondamentali di coloro che attendono a quel perpetuo scandalo che è il lavoro letterario. Persuaso di avere delle idee, e che il romanzo sia mezzo atto ad esprimerle, lo scrittore ha perso il candido cinismo, in primo luogo il cinismo verso se medesimo. Ha scelto di balbettare delle verità, mentre era suo compito declamare delle fluenti menzogne, anzi esaltare il vero a menzogna; ha cercato di far capire che egli si proponeva di interpretare il mondo per i suoi lettori, invece di rivolgersi a lettori non nati, già morti o destinati a non nascere mai; ha voluto collocarsi nella storia, che fra tutti gli abitacoli che la letteratura ha sperimentato si è rivelato il più estraneo e disagevole. Infine ha rinunciato alla disubbidienza, si è fatto morigerato: ed ora si stupisce che la letteratura, aureolata sgualdrina, respinga e irrida la sua corte goffa e onesta.

[Giorgio Manganelli, Il romanzo, in Il rumore sottile della prosa, Milano, Adelphi 2013 (2), pp. 57-58]

Se fossi onesto

martedì 15 Aprile 2014

Giorgio Manganelli, Il rumore sottile della prosa
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scrivere è certamente un modo astuto per evitare di ‘fare’; intorno a me la gente si preoccupa di vivere, ha famiglia, percepisce stipendi, si ammala e muore. Oh, anch’io percepisco stipendi, ma si può chiamare stipendio quanto si ottiene in cambio di ‘scrivere’? Via, non diciamo sciocchezze. Probabilmente scrivere è il modo di frodare che tiene chi è nato ladruncolo o truffatore, ma non ha abbastanza coraggio per delinquere su grande scala. Se fossi onesto, fabbricherei monete false – deve essere un lavoro da grande artista – o ricatterei facoltose coppie con figli scapestrati, o semplicemente aspetterei di notte il rientro di gentiluomini affezionati alla vita: «O la borsa o la vita», vecchia e nobile sentenza, piena di acute allusioni filosofiche, e forse progettata da un’intelligenza non ignara del divino. Ma io sono vigliacco e claustrofobo: non posso tollerare la prospettiva della galera, luogo tradizionalmente chiuso: soprattutto, avrei paura delle mie vittime. Io derubare – chi? Dovrei trovare una vittima più indifesa e codarda di me: sono certo che sarebbe uno scrittore; ma non si può mica sperare di incontrare sempre e solo scrittori.

 

[Giorgio Manganelli, Il rumore sottile della prosa, Milano, Adelphi 2013 (2), pp. 21-22]