Cosa fa Dante quando si mette a scrivere in volgare

mercoledì 26 Novembre 2014

agamben, il fuoco e il racconto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ho letto qualche settimana fa il libro Il fuoco e il racconto, di Giorgio Agamben, recentemente pubblicato da Nottetempo, e continuamente me ne tornano in mente dei pezzi. Per esempio la parte in cui Agamben dice che esser poeta significa «essere in balia della propria impotenza» (p. 46). Oppure la parte in cui dice che la filosofia «non è un ambito disciplinare, ma un’intensità che può di colpo animare qualsiasi ambito della conoscenza e della vita, costringendolo a urtarsi ai propri limiti» (p. 69), cioè che la filosofia «è lo stato di eccezione dichiarato in ogni sapere e in ogni disciplina», e che «questo stato di eccezione si chiama: verità» (p. 70). O quella parte in cui Agamben si chiede cosa fa Dante quando si mette a scrivere in volgare, e si risponde che Dante, praticamente, quello che fa, è mettere per iscritto una lingua orale (pag. 85). O quando dice che «pensare significa ricordarsi della pagina bianca mentre si scrive o si legge» (pag. 111); anche noi, adesso, per esempio. O quando cita una poesia di René Daumal, quella che dice: «Sono morto perché non ho desiderio, / non ho desiderio perché credo di possedere, / credo di possedere perché non cerco di dare. / Cercando di dare, si vede che non si ha niente, / vedendo che non si ha niente, si cerca di dare se stessi, / cercando di dare se stessi, si vede che non si è niente, / vedendo che non si è niente, si cerca di divenire, / desiderando divenire, si vive» (pag. 117). O quando dice che l’arte, cioè la bellezza, non rende visibile l’invisibile, «rende visibile il visibile» (p. 133). O quando (a pag. 84), dà un consiglio agli editori e a quelli che si occupano di libri: «smettetela di guardare alle infami, sì, infami classifiche dei libri più venduti e – si presume – più letti e provate a costruire invece nella vostra mente una classifica dei libri che esigono di essere letti», cioè di quei libri che «sono stati scritti e pubblicati ma sono, forse per sempre, in attesa di essere letti» e, da quando ho letto questo pezzetto, nella mia testa ho cominciato a fare una lista di questi libri che sarebbe bene che leggessero in tanti, e cambia continuamente, questa lista, e se dovessi dire cosa c’è dentro in questo momento direi che c’è Le opere complete di Learco Pignagnoli (scritto da Daniele Benati), che contiene 245 opere sul genere dell’opera numero 109, che fa così: «Opera n. 109. C’era un tipo, un certo Fofi, da non confondere con il critico, che una volta siamo andati al cinema insieme, lui russava, io russavo. Abbiamo visto un bel film». O quel libro di poesie di Cesare Zavattini che si intitola A vrès (Vorrei), dove, in una poesia intitolata Dio c’è la prova dell’esistenza di Dio, questa qui: «Dio c’è. / Se c’è la figa c’è. / Solo lui poteva studiare una cosa così, / sta in mano come una passerottina, / piace a tutti a tutti / in cielo in mare in terra». O il Mi ricordo di Joe Brainard, appena pubblicato in italiano da Lindau, dove c’è scritto: «Mi ricordo l’unica volta che ho visto mia mamma piangere. Stavo mangiano una crostata d’albicocche». O il Tolstoj di Viktor Šklovskij, dove Šklovskij ricorda le parole di Herzen: «Se gli uomini volessero salvare se stessi invece di salvare il mondo, liberare se stessi invece di liberare il mondo, farebbero moltissimo per la salvezza di questo e la liberazione dell’umanità». O le poesie di Velimir Chlebnikov: «Poco, mi serve. / Una crosta di pane, / Un ditale di latte, / E questo cielo, / E queste nuvole». O quel libretto di viaggi in Italia di Giorgio Manganelli, intitolato La favola pitagorica, che ha dei capitoli intitolati, per esempio: Piacenza non è Singapore. Oppure: Esiste Ascoli Piceno? E, per finire, ancora le Opere complete di Learco Pignagnoli, l’opera numero 128, quella che fa così: «Opera n. 128. I figli dei notai che diventano notai, degli attori che diventano attori, dei musicisti che diventano musicisti, dei giornalisti che diventano giornalisti, degli industriali che diventano industriali, dei dottori che diventano dottori, degli architetti che diventano architetti, degli avvocati che diventano avvocati, degli ingegneri che diventano ingegneri. Ma andatevela a prendere nel culo».

[uscito ieri su Libero]

Per Daumal invece

sabato 11 Ottobre 2014

Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto
 

 

 

 

 

 

 

 

Per Daumal, invece, il lavoro all’opera ha senso soltanto se coincide con l’edificazione di sé. Ciò equivale a fare della vita la posta in gioco e, insieme, la pietra di paragone dell’opera. Per questo egli può compendiare la sua convinzione suprema come un itinerario dalla morte alla vita:

Sono morto perché non ho desiderio,
non ho desiderio perché credo di possedere,
credo di possedere perché non cerco di dare.
Cercando di dare, si vede che non si ha niente,
vedendo che non si ha niente, si cerca di dare se stessi,
cercando di dare se stessi, si vede che non è niente,
vedendo che non si è niente, si cerca di divenire,
desiderando divenire, si vive.

[Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto, Roma, Nottetempo 2014, p. 117]

In balia

giovedì 9 Ottobre 2014

Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto
 

 

 

 

 

 

 

 

Ed essere poeta significa: essere in balia della propria impotenza.

[Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto, Roma, Nottetempo 2014, p. 46]

Una premessa

mercoledì 8 Ottobre 2014

Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto
 

 

 

 

 

 

 

 

Devo premettere che provo un certo disagio di fronte all’uso, purtroppo oggi assai diffuso, del termine creazione in riferimento alle pratiche artistiche.

[Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto, Roma, Nottetempo 2014, p. 40]

Un rompicapo

martedì 7 Ottobre 2014

Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto
 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il fatto è che proprio la mente dell’uomo ordinario costituisce oggi per l’etica un inesplicabile rompicapo. Quando Dostoevskij e Nietzsche si accorsero che Dio era morto, essi credettero di doverne trarre la conseguenza che l’uomo sarebbe diventato un mostro e un obbrobrio, che nulla e nessuno avrebbero potuto trattenere dai più scellerati delitti. La profezia si è rivelata del tutto priva di fondamento – e insieme, in qualche modo, esatta. Vi sono, certo, di tanto in tanto, ragazzi in apparenza per bene che, in una scuola del Colorado, prendono a fucilate i loro compagni e, nelle periferie delle metropoli, piccoli delinquenti e grandi assassini. Ma essi sono, com’è stato in ogni tempo e, forse, in misura ancora maggiore, l’eccezione e non la regola. L’uomo comune è sopravvissuto a Dio senza troppe difficoltà ed è, anzi, oggi inopinatamente rispettoso della legge e delle convenzioni sociali, istintivamente proclive a osservarle e, almeno rispetto agli altri, sollecito a invocarne la sanzione. È come se la profezia secondo cui “se Dio è morto, allora tutto è possibile” non lo riguardasse in alcuno modo: egli continua a vivere plausibilmente anche senza i conforti della religione e sopporta con rassegnazione una vita che ha perduto il suo senso metafisico e sulla quale egli non sembra, del resto, farsi alcuna illusione.

[Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto, Roma, Nottetempo 2014, p. 19]