Ormai da una cinquantina d’anni

giovedì 11 Aprile 2019

Una volta, molto tempo fa, lessi su un settimanale un saggio che si intitolava Tre incontri con Lev Tolstoj. Il primo incontro: l’autore arriva a Jasnaja Poljana, ma Tolstoj è ammalato e non lo riceve. Il secondo incontro: arriva a Chamovniki e lo informano che Tolstoj non è in casa. Il terzo incontro: arriva a Astapovo e Tolstoj è appena morto… Di Tolstoj non appresi nulla, ma quanto imparai sull’autore! Non l’ho mai dimenticato.
In occidente, ormai da una cinquantina d’anni, quasi tutti i libri sono autobiografici. Talvolta sembra che persino i libri di matematica e astrofisica siano stati scritti dai loro autori in parte anche come autobiografie.

[Nina Berberova, Il corsivo è mio, traduzione di Patrizia Deotto, Milano, Adelphi 2002 (4), p.6]

Perché

giovedì 29 Maggio 2014

Nina Berberova, Il corsivo è mio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La sua prima domanda fu:
«Per chi mi lasci?».
In quel momento sentii come non mai l’immensa, lieve felicità di una coscienza pulita.
«Per nessuno».
Ma dopo alcuni giorni mi domandò di nuovo:
«Per chi? Per K.? Per S.? Per A.?».
Mi venne quasi da ridere e risposi:
«Su che cosa devo giurarlo? Su Puškin?».
Durante le nostre ultime due settimane di vita in comune cominciò a preoccuparsi della mia situazione finanziaria: come avrei sbarcato il lunario? Avevo fatto i conti con la mia povertà programmata: la stanza d’albergo: 300 franchi al mese, il mangiare: 10 franchi al giorno. Totale 600 franchi. Potevo guadagnare quei seicento franchi al mese a «Poslednie novosti»: due corsivi al mese, ogni tanto qualche critica letteraria e cinematografica, la domenica avrei fatto la dattilografa in redazione. E per riparare le scarpe? E la lavanderia? I libri? I vestiti? In qualche modo me la caverò. Escogiterò qualcosa. Qualche soldo arriverà da «Sovremennye Zapiski». Lui non poteva aiutarmi, ma promise di lasciarmi la cronaca letteraria di Gulliver. Gliene fui grata.
Non toccai nulla in casa. Riempii due casse con i miei libri e presi la mensola, due valigie con i vestiti e la biancheria, e una cassa con gli scritti. Tutto il resto rimase al suo posto come se niente fosse accaduto: il gallo sulla teiera, i mobili e i soprammobili, la lampada che avevo acquistato al Quartiere Latino con i soldi che lui aveva vinto a carte. Era affacciato alla finestra e mi guardò andar via. Quando avevo affittato l’appartamento avevo pensato che abitare al quarto piano sarebbe stato pericoloso, che sarei sempre stata preoccupata per lui. Ma negli ultimi giorni i suoi pensieri erano rivolti in un’altra direzione: quel pomeriggio entrando in cucina (dove gli preparavo quel boršč che sarebbe durato tre giorni) mi disse:
«Perché non apriamo il gas?».
Ora stava con il suo pigiama a righe alla finestra spalancata, appoggiato con entrambe le mani all’intelaiatura: sembrava crocefisso.
Era la fine dell’aprile 1932.

[Nina Berberova, Il corsivo è mio, traduzione di Patrizia Deotto, Milano, Adelphi 2002 (4), pp. 375-376]