martedì 12 Dicembre 2017

– Piace che abbia ucciso suo padre?
– Piace, piace a tutti! Tutti dicono che è una cosa tremenda, ma nell’intimo piace loro tremendamente. Son io la prima, che mi piace.
[Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Agostino Villa, Torino, Einaudi 2014, p. 766]

giovedì 7 Dicembre 2017

Pan Musjalovič, effettivamente, mandava una lunghissima e (al solito suo) fioritissima lettera, in cui chiedeva che gli si facesse un prestito di tremila rubli. Alla lettera era accluso un biglietto di ricevuta, in cui si obbligava a restituire la somma in tempo di tre mesi: e sotto la ricevuta aveva apposto la firma anche pan Vrublevskij. Di lettere simili, e sempre munite di simili ricevute, Grušen’ka ne aveva già ricevute in gran numero dal suo «ex». La storia era incominciata fin da quando Grušen’ka era guarita, due settimane or sono. Essa aveva saputo, tuttavia, che nel corso della sua malattia i due pan eran venuti a informarsi della sua salute. La prima lettera ricevuta da Grušen’ka era una letterona su carta di gran formato, sigillata con un gran timbro con tanto d’iniziali, terribilmente oscura e arzigogolata, tanto che Grušen’ka, lettane soltanto mezza, l’aveva buttata via senza averci capito un’acca. Eppoi, altro che a lettere aveva da pensare allora. A questa prima, era seguita l’indomani una seconda lettera, nella quale pan Musjalovič chiedeva in prestito duemila rubli, a scadenza brevissima. Anche quest’altra lettera era stata lasciata da Grušenka senza risposta. Era seguita quindi tutta una serie di lettere, in ragione d’una per giorno, tutte ugualmente solenni e pretenziose, ma nelle quali la somma richiesta in prestito gradatamente s’era venuta abbassando, riducendosi a cento rubli, a venticinque, a dieci: e finalmente, un bel giorno, Grušen’ka aveva ricevuto una lettera, in cui i due pan le chiedevano un rublo solo, e accludevano la ricevuta, sotto la quale entrambi avevano apposto le loro firme.
[Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Agostino Villa, Torino, Einaudi 2014, p. 745]

giovedì 7 Dicembre 2017
Uno organizzava feste per aspiranti suicidi nella Russia dell’800.
Lui era nato contadino, ma da quando era diventato locandiere, considerava i contadini poco più che delle bestie, gente rozza e ignorante, buona solo per lavorare la terra. Però, se la sera arrivava un cliente coi rubli in vena di bagordi, allora il locandiere non si faceva scrupoli, lui andava per il villaggio a svegliare le contadine, e sotto il ricatto dei debiti pregressi, le obbligava a ballare tutta la notte per il divertimento del cliente.
Già la vita delle contadine marchigiane del ‘900 era durissima, pensa quella delle contadine russe dell’800. La fame tutto l’anno. Il freddo, la tosse e il mal di gola che cominciavano a settembre e andavano via a giugno. Sveglia tutte le mattine alle 5 per accudire gli animali. Quindi lavare i panni al lavatoio, rammendare, cucinare, mai un minuto libero, tutto questo prima di andare a spezzarsi la schiena sui campi fino all’ultimo raggio di sole. Poi finalmente il riposo.
Ma ecco che una sera arriva un tenente che vuole far baldoria. E siccome il tenente è pieno di rubli, il locandiere subito gli organizza una festa. Corre a svegliare le contadine e le obbliga a ballare nella locanda. E siccome sono in Russia, le contadine devono ballare le danze russe, ta ta-tatata, che sono forse le danze più faticose del mondo. Tutta questa fatica per cosa? Soltanto per far arricchire il locandiere, che ha già tanti soldi ma non gli bastan mai. Ne vorrebbe sempre di più, adesso vorrebbe anche tutti i soldi del suo cliente, uno che ha deciso di uccidersi, ma che prima di uccidersi, vuol sperperare i suoi 3000 rubli rubati, poi spararsi, in modo da punire nel profondo la sensibilità di una bella usuraia, quella stessa usuraia che già un mese prima il tenente aveva tentato invano di conquistare, sempre con una festa a base di contadine e champagne.
Ormai che l’usuraia ha deciso di andare in Polonia per sposare un ufficiale polacco, al nostro eroe non resta altro che spararsi. Alle 5 si sparerà di sicuro. Prima però decide di abbruttirsi col gioco d’azzardo. Così sfida alle carte il polacco, e comincia a puntare forte, e a perdere forte, sempre più forte, che glielo vuol proprio far vedere al rivale polacco come sa perdere un russo i suoi rubli rubati. E mentre, una mano dopo l’altra, si consuma l’autodistruzione dell’eroe, ecco riapparire il locandiere, il quale, accortosi del mazzo di carte truccate, e preoccupato per la possibilità di veder svanire il suo guadagno, sbugiarda il baro polacco di fronte al mondo intero e lo rinchiude in castigo nello stanzino. In quel preciso momento, la bella usuraia deve aver pensato: i polacchi, che brutte persone. E in un attimo comprende che il suo ufficiale polacco atteso per cinque lunghi anni, era nient’altro che una mastellata di risciacquature, e che il Karamazov sarà sì forse uno sfaccendato spendaccione ladro e assassino, ma è comunque pur sempre un bravo ragazzo. Lei lo abbraccia, lo bacia, gli promette amore eterno. La giustizia alla fine trionfa. Si stappi altro champagne, ballino le contadine, e avanti così tutta la notte. Fortuna che a un certo punto arriva la polizia a interrompere la festa, giusto in tempo per dare alle contadine un’ora di sonno, prima di dover tornare sui campi a lavorare.
[Compito di Roberto Livi per la Scuola media inferiore di Dostoevskij (descrivete un personaggio di Dostoevskij come se fosse uno dei matti di un Repertorio dei matti della città di Skotoprigonevskij)]

giovedì 30 Novembre 2017

– Dunque voi avete sposato una zoppa? – esclamò Kalganov.
– Una zoppa, precisamente. Il fatto è che loro, sul momento, s’accordarono tutt’e due a farmi un imbroglietto, e mi nascosero la cosa. Io credevo che lei saltellasse… Continuava sempre a saltellare, e quindi pensavo che facesse così per la contentezza…
– Per la gioia di diventar vostra moglie? – stridette, con un’infantile acutezza di voce, Kalganov.
– Gia, eh? per la gioia. E invece, ahimè, venne a scoprirsi che era per tutt’altro motivo.
[Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Agostino Villa, Torino, Einaudi 2014, p. 555]

giovedì 23 Novembre 2017

Grigorij gl’insegnò a leggere e a scrivere, e quando toccò i dodici anni, si fece a insegnargli la Storia Sacra. Ma l’impresa andrò subito in fumo. Bruscamente, la seconda o al massimo la terza lezione, il ragazzo di punto in bianco si mise a ridacchiare.
– Chi hai? – domandò Grigorij, sbirciando severo di sotto agli occhiali.
– Oh, niente. La luce, il Signore Iddio, l’ha creata il primo giorno: e il sole, la luna e le stelle, il quarto giorno. O allora di dove veniva la luce, il primo giorno?
[Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Agostino Villa, Torino, Einaudi 2014, p. 165]

lunedì 20 Novembre 2017
A pagina 161 dell’edizione Einaudi dei Fratelli Karamazov c’è scritto «In casa di queste due rificolone che sono ora proprietarie di qui, c’è una stanzetta affittata a Foma» (la traduzione è di Agostino Villa).
Siccome non so cosa vuol dire Rificolona, ho cercato in rete e ho trovato questo:
«”Ona, ona, ona
Oh che bella rificolona!
La mia l’è co’ fiocchi
e la tua l’è co’ pidocchi.
E l’è più bella la mia
di quella della zia”
Chi da bambino non ha mai cantato questa canzoncina, saltellando con la cerbottana in bocca alle prese con i pallini di stucco, mirando alle rificolone degli altri bambini?» (il sito è questo clic).
Siccome non ho mai cantato questa canzoncina, saltellando con la cerbottana in bocca alle prese con i pallini di stucco, mirando alle rificolone degli altri bambini, ho cercato sul dizionario, e adesso mi sembra che rificolona significhi palloncino, fatto con carta colorata e illuminato internamente da una candela, fissato in cima a una canna e portato in giro durante alcune feste popolari, e, in senso figurato, e spregiativo, Donna pacchiana, truccata o acconciata in modo ridicolo (dal dizionario Hoepli).
La parola usata da Dostoevskij è шлюх, che è il genitivo plurale di шлюха, che il dizionario Zanichelli dice che significa Troia, puttana.
È Mitja Karamazov, che la dice.
A me piace di più rificolona, ma se dovessi tradurlo, non lo tradurrei rificolona, credo.

lunedì 20 Novembre 2017

E così, tu voi andartene a star coi monaci? Ma sai, per me è un dispiacere, Alëša, davvero: io, credimi, mi sono affezionato a te… Del resto, sarebbe proprio l’occasione che ci vuole: pregherai anche per noi peccatori, che davvero, standocene qui, abbiam troppo peccato. Era una cosa che pensavo sempre: chi ci sarà, che pregherà per me? Si troverà al mondo un uomo simile? Caro il mio piccino, in questo, sai?, io sono un terribile stupido: tu forse non ci crederai? Un terribile stupido! Vedi, per quanto in questo io sia uno stupido, ci penso però, sempre ci penso… ogni tanto, s’intende, mica sempre… Non è mica possibile, penso, che i diavoli con i loro raffi si scordino di tirar giù me, quando morrò. Ed ecco che mi viene in mente: i raffi? e di dove li prendono? di che son fatti? sono di ferro? ma allora dove li forgiano? e che, c’è qualche fabbrica, dunque, lì da loro? In questi conventi, vedi, i religiosi credono con sicurezza che l’inferno, per esempio, abbia tanto di soffitto. Ma io sono qui pronto a credere all’inferno, purché non si parli di soffitto: esso ne viene a risultare, allora, più fine, direi, più progredito, alla luterana, insomma. Ma in sostanza non è poi la stessa cosa, col soffitto o senza soffitto? Ecco, ecco dove sta la maledetta questione! Già, ma se il soffitto non c’è, allora non ci son neppure i raffi. E se non ci sono i raffi, in tal caso tutto va a rotoli: di nuovo si cade nell’inverosimile: chi è allora, che mi tira giù coi raffi, giacché se io non fossi tirato laggiù, che ne sarebbe allora, dove starebbe la giustizia a questo mondo? Il faudrait les inventer, questi raffi, apposta per me, per me solo: giacché se tu sapessi, Alëša, che svergognato sono io!…
[Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Agostino Villa, Torino, Einaudi 2014, pp. 33-34]
