Qui
Orbelj si volse in direzione della Prospettiva Nevskij, il grande viale che che il poeta Aleksandr Blok riteneva «la strada più lirica, più poetica del mondo», dove più che in qualsiasi altro luogo c’era un che di misterioso nelle donne, una cupa bellezza nel loro aspetto, qualcosa di fantomatico nelle loro promesse. La città aveva sempre commosso profondamente chi l’aveva visitata. Per taluni era opprimente, mistica, tragica; per altri, eterea, magica, miracolosa. Per Lenin era un cumulo di tuguri trasudanti, maturi per l’agitazione, l’intrigo, la Rivoluzione. Per i Romanov era la capitale del mondo, il seggio dell’autorità assoluta, il mandato unto dalla benedizione della fede ortodossa.
Sempre la città evocava superlativi, colpendo lo spettatore con la maestà dei suoi spazi, l’ampiezza delle dimensioni, l’intreccio di acqua e pietra, di piloni di granito e snelli ponti, di bassi cieli e dell’interminabile freddo e neve dell’inverno. Era l’officina della Russia, il laboratorio della Russia, la culla della scienza e dell’arte russe. Qui Mendeleev ha scoperto la tavola degli elementi; qui Pavlov ha lavorato coi suoi cani ai riflessi condizionati; qui Musorgskij ha scritto la sua violenta, cupa musica, e i piedi fatati della Pavlova hanno avvinto i cuori dei granduchi e dal seno del Balletto Imperiale sono sbocciati Bakst, Diaghilev, Fokin e Nijinskij.
[Harrison E. Salisbury, I 900 giorni, traduzione di Adriana Dell’Orto, Milano, ilSaggiatore 2014, p. 19]