Quei cherubini ai quali non credo
Perché, cosa avrebbe a che fare con la compassione, con una comprensibile umana associazione di idee, il fatto che un’altra sera mi capiti di trovare sotto un noce un innaffiatoio pieno a metà dimenticato da un garzone giardiniere, e questo innaffiatoio, e l’acqua che esso contiene, resa cupa dall’ombra dall’albero, e un insetto che remiga sullo specchio di quest’acqua da una sponda oscura all’altra, che questo insieme di cose insignificanti mi trapassi di un fremito per la presenza dell’infinito, mi faccia rabbrividire dalle radici dei capelli fino al midollo, così che dovrei uscire in parole di cui io so che, se le trovassi, richiamerebbero sulla terra quei cherubini, ai quali non credo; e che poi mi allontani in silenzio e, dopo settimane, avvertendo la presenza di quel noce, sia titubante a rivolgergli uno sguardo turbato, non volendo disperdere la sensazione del meraviglioso che tuttora spira attorno a quel tronco e fugare le presenze soprannaturali che continuano ad aleggiare tra i cespugli vicini. In tali momenti una qualsiasi creatura insignificante, un cane, un topo, un insetto, un melo intristito, una carrareccia che si snoda sulla collina, una pietra muscosa vengono a significare per me assai più dell’amante più bella e generosa nella più felice delle notti.
[Hugo Von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos, traduzione di Marga Vidusso Feriani, Milano, Bur 1988 (3), pp. 51-53]