2 marzo – Radio 3
Oggi, 2 marzo,
alle 15 e 30,
su radio 3,
con Gian Piero Piretto
parliamo di Gorbačëv.
Oggi, 2 marzo,
alle 15 e 30,
su radio 3,
con Gian Piero Piretto
parliamo di Gorbačëv.
Uno si era fatto lanciare nello spazio e era tornato. Era stato il primo a andare lassù, e aveva detto: “Non ho visto nessun Dio”. E aveva iniziato a ricevere di lettere di credenti che si erano convertiti all’ateismo dopo averlo ascoltato.
[Repertorio dei matti della letteratura russa, in preparazione]
Lo sanno tutti: la Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre ha avuto luogo in novembre. Il 7 novembre (25 ottobre) 1917. La ragione è troppo nota per insistervi in dettaglio: l’aggiornamento del calendario, una delle prime riforme successive all’evento, i famosi tredici giorni che avrebbero spostato in avanti (adeguandole all’Occidente) tutte le feste comandate, comprese quindi quelle religiose (non la Pasqua che è mobile), e che avrebbero permesso ai russi (di ieri e di oggi) di festeggiare due volte il capodanno: novyj god (capodanno, il 1° gennaio) e staryj novyj god (vecchio capodanno, il 13 gennaio).
[Gian Piero Piretto, Quando c’era l’URSS, Milano, Raffaello Cortina 2018, p. 3]
I cittadini sovietici, ed è stata un’amica russa a darmi questa lezione alcuni decenni fa, erano contenti quando, uscendo per la spesa, vedevano le code davanti ai negozi. Nell’ambito di quell’economia così particolare, coda significava prodotti disponibili, a costo di una lunga e non sempre fortunata attesa: si trattava di un’operazione sempre preferibile alla mancanza cronica o assoluta di beni di consumo, segnalata dall’assenza di aspiranti compratori e delle onnipresenti file. Quasi assordo e inattendibile per un occidentale nato e cresciuto nel consumismo, ma in fondo ragionamento ineccepibile e addirittura condivisibile, seppure a costo di qualche riflessione e di alcune rinunce alle proprie scontate categorie culturali.
[Gian Piero Piretto, Indirizzo: Unione Sovietica. 25 luoghi di un altro mondo, Milano, Sironi 2015, p. 88]
Uno stagnaro comprò un letto. Ma, caso strano, quando lo stagnaro ci si sdraiò, dietro la testa restò uno spazio vuoto, mentre per i piedi non ce n’era abbastanza. Dapprima lo stagnaro pensò di reclamare, ma poi cambiò idea: segò la parte di letto in eccedenza e la attaccò a quella mancante. Adesso lo stagnaro dorme sonni tranquilli: dietro la testa è sparito lo spazio vuoto e in fondo c’è posto per mettere i piedi.
[Oleg Grigor’ev, Ptica v kletke. Stichi i proza, Limbacha, Spb 1997, citato in Gian Piero Piretto, Il radioso avvenire. Mitologie culturali sovietiche, Torino, Einaudi 2001, p. 299]
Potrà sembrare strano a chi legge che tra gli oggetti di culto sovietici rientri il rotolo di carta igienica. In realtà anche attorno a questo articolo ruota un mondo di vicende, circostanze, avventure che lo rendono degno di attenzione specifica.
La carta igienica rientrava tra i prodotti deficitari, quelli che non era né facile né scontato trovare sul mercato. Per ragioni imponderabili la produzione statale riservava gli ambìti rotoli alla distribuzione privilegiata, agli alberghi per stranieri, alle istituzioni esclusive. Gli altri si arrangiavano. Una barzelletta molto diffusa sosteneva che la carta igienica non fosse reperibile perché veniva utilizzata per l’impasto della doktorskaja kolbasa (salame del dottore), una sorta di mortadella dalla pasta compatta e non propriamente olezzante.
Una leggenda metropolitana voleva che le vendite di quotidiani fossero incrementate proprio per supplire alle carenze di cui sopra. Ma i problemi restavano: i giornali sovietici aveva poche pagine, e la scorta si esauriva in fretta. E poi l’inchiostratura era delle meno sofisticate e stingeva a tutto andare.
[Gian Piero Piretto, La vita privata degli oggetti sovietici. 25 storie da un’altro mondo, Milano, Sironi 2012, p. 116]
Mi è venuto in mente stamattina, intanto che facevo il bucato, a dire il vero mi viene in mente spesso, in questi giorni, che un mese fa, quando abbiamo presentato la nuova traduzione di Chadži-Murat al salone del libro a Torino, quando Gian Piero Piretto mi ha chiesto come mai mi ero preso la responsabilità di tradurre Tolstoj, io avevo risposto che la responsabilità se l’era presa l’editore che me l’aveva chiesto, e avevo indicato Daniela Di Sora, che era lì. Dopo, il giorno dopo, mi è venuta in mente un’alta risposta: Ho quarantasette anni, ormai forse è ora, che mi prenda qualche responsabilità. E niente. Se l’avessi detta allora, questa cosa qua, non mi sarebbe più tornata in mente, credo. Adesso vado a prendermi un paio di braghe.
“Tutta la Russia è il nostro giardino”, griderà nel Giardino dei ciliegi čechoviano l’eterno studente Petja Trofimov alla giovane Anja, di cui è innamorato, per convincerla che l’attaccamento morboso a un luogo è rinuncia e chiusura mentale, sul fronte antropologico-esistenziale prima ancora che ideologico-sociale. La terra russa è stata počva (suolo) prima che stato e il piede nudo del pellegrino, del vagabondo, dell’evaso dalla Siberia, del condannato alla deportazione, del santo pazzo o del folle nel nome di Cristo l’ha calpestata cercandone il contatto fisico per trovare la strada verso la santità. Una percezione fisica del rapporto con la propria terra che avrebbe fatto scrivere a Vladimir Nabokov di un suo personaggio: “Da tempo aveva voglia di esprimere in qualche modo che lui la Russia la sentiva coi piedi, che avrebbe potuto toccarla e riconoscerla tutta con le piante dei piedi come un cieco con il palmo delle mani”.
[Gian Piero PIretto, Gli occhi di Stalin. La visuale sovietica nell’era staliniana, Milano, Cortina 2010, p. 32 ]