Per cortesia

martedì 7 Gennaio 2025

Un po’ di anni fa, quando un esponente del governo è montato su un balcone a festeggiare il fatto che, secondo lui, avevano abolito la povertà, io ho scritto sui social di non abolire la disperazione, per cortesia, che mi serve.

Ieri, sulla Gazzetta di Parma, un’intervista di Paolo Cioni.

‘Chiudo la porta e urlo’ è il tuo ultimo libro dedicato al poeta romagnolo Raffaello Baldini. Io volevo leggere solo l’incipit ma poi non sono riuscito a metterlo giù e l’ho letto tutto.
Quindi l’incipit funziona di sicuro, e funziona anche il resto. Oltre a questo ho fatto bene a leggerlo tutto perché nel romanzo citi almeno quattro tuoi incipit da quattro tuoi romanzi precedenti.
La prima domanda quindi ha già una risposta nel romanzo, ma vale la pena di farla: che rapporto hai con l’incipit dei tuoi romanzi?

La prima frase di un romanzo è la più letta, è una specie di scivolo che ti porta dentro il libro, se funziona, o un paraurti che ti respinge, se ti respinge. Il caso di Chiudo la porta e urlo è singolare, quando il libro stava per uscire una mia conoscente che è madrelingua russa mi ha chiesto, in russo, di cosa parlava il romanzo e io le ho risposto, in russo, che parlava di stupidità e di morte e poi, non me lo ricordavo, ho riletto l’inizio che dice così:
«“La battaglia contro la coglionaggine comincia da se stessi” scrive Raffaello Baldini.
Lo scrive in un monologo, che si intitola La fondazione.
E a me viene in mente quel che dice Ricky Gervais, che quando sei morto tu non lo sai, è doloroso solo per gli altri.
La stessa cosa, dice, succede quando sei stupido. Ecco.
Cominciamo pure».

Sono sempre affascinato dal lavoro che sta dietro: appunti, scarabocchi, prime stesure. Come nasce l’incipit di un tuo romanzo?

Mi ricordo l’inizio di Bassotuba non c’è. Era un periodo che facevo molte traduzioni tecniche, dall’italiano al russo e stavo scrivendo quello che sarebbe diventato il mio primo romanzo, che si intitola Le cose non sono le cose, e il cui incipit è «Mia nonna Carmela si chiamava Carmela». Sono uscito con dei miei amici, era un periodo che uscivo pochissimo, e sulla macchina dove eravamo c’era la radio e ho sentito, per la prima volta, la canzone di Gianni Morandi Uno su mille ce la fa e ho pensato «Io sono quello che non ce la faccio». Tornato a casa ho aperto un file e l’ho scritto: «Io sono quello che non ce la faccio». Qualche settimana dopo, finito Le cose non sono le cose, ho riaperto quel file e, da quella frase, viene giù il libro successivo, che si intitola Bassotuba non c’è.

Basilicanova, Parma, qui sono i tuoi inizi. Nel libro racconti anche del momento preciso, settembre 1996 se non sbaglio, in cui comincia la tua vita di scrittore.
Cosa serve davvero per iniziare?

Come racconto in Chiudo la porte e urlo, ho cominciato a scrivere che avevo 33 anni, ero il Francia, facevo il responsabile amministrativo di una joint-venture franco-italiana che posava un metanodotto nel sud della Francia, io abitavo a Nîmes. Lavoravo 14 ore al giorno, e dopo 4 mesi mi sono svegliato mi sono chiesto se avevo qualche passione per i metanodotti e mi sono risposto di no e ho dato le dimissioni: ero talmente disperato che ho trovato il coraggio di provare a fare della mia passione, la letteratura, il mio mestiere. Quella, mi è servita, la disperazione. Un po’ di anni fa, quando un esponente del governo è montato su un balcone a festeggiare il fatto che, secondo lui, avevano abolito la povertà, io ho scritto sui social di non abolire la disperazione, per cortesia, che mi serve.

Effetto Kulešov e teoria del montaggio. Ne parli nel romanzo ed è molto affascinate.
Pensi che questo gioco di riflessi fra le sequenze alternate sia in qualche modo applicabile anche alla letteratura?

Come dico in Chiudo la porta e urlo, Kulešov è un regista sovietico che sembra che cento anni fa, negli anni Venti del Novecento, abbia fatto un esperimento, in realtà adesso c’è della gente che dice che non l’ha fatto lui l’ha fatto Pudovkin, chissà chi ha ragione, comunque c’è questo regista sovietico che ha filmato quattro sequenze: qualche secondo del primo piano di un attore, che si chiamava Mozžuchin, che guarda in lontananza; qualche secondo di una zuppa fumante; qualche secondo di una bambina stesa, come se fosse morta, dentro una bara; qualche secondo di una ragazza stesa su un divano.
Poi il regista ha montato le sequenze in tre modi: primo piano dell’attore – zuppa fumante; primo piano dell’attore – bambina nella bara; primo piano dell’attore – ragazza sul divano.
E la faccia dell’attore Mozžuchin, nel primo montaggio sembrava una faccia affamata, nel secondo una faccia disperata, nel terzo una faccia innamorata, e la faccia era sempre quella.
Come nel paradosso di Mommsen, era il futuro a gettare le sue ombre sul passato; e l’esperimento di Kulešov, o di chi l’ha fatto, dimostra, ammesso che sia possibile dimostrare qualcosa, che il significato di una cosa cambia a seconda delle cose che la circondano, a seconda della luce che quella cosa prende da quello che c’è intorno.
L’inizio di Anna Karenina, di Tolstoj, «Tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo», come inizio è straordinario, secondo me, è una specie di sfida di Tolstoj al lettore, è uno scivolo meraviglioso; se lo spostassimo, per esempio, alle fine del romanzo, come ultima frase, avrebbe un tono sentenzioso che lo renderebbe, mi sembra, un pessimo finale. Eppure è sempre la stessa faccia di Mozžuchin.

Sui libri

giovedì 21 Gennaio 2021

Quale libro sta leggendo in questo momento?

L’enigma Tolstoevskij di Pierre Bayard, che è una biografia immaginaria di uno scrittore che si chiama Fedor Lev Tolstoevskij e che è nato due volte, nel 1821 e nel 1828, ed è morto due volte, nel 1881 e nel 1910.

[Sabato 23 gennaio, esce un’intervista sulla Gazzetta di Parma (a Davide Barilli)]

Non c’era niente

domenica 30 Settembre 2018

– La grande Russia portatile è un libro di storia, letteratura, storia della lingua e del costume russo, ma anche un romanzo autobiografico, una riflessione su grandi temi del presente: da cosa è nata l’idea? Nasce prima da un desiderio di raccontare un’esperienza personale o come “guida” al mondo intimo russo, a partire dalla scrittura?

Nel gennaio del 2018, stavano andando al collegio Borromeo di Pavia a parlare di traduzione a dei dottorandi e, intanto che andavo in stazione in bicicletta, ho pensato che per me, che prima di mettermi a studiare russo avevo lavorato per un anno e mezzo in Algeria, sulle montagne del piccolo Atlante, e per un anno e un po’ a Baghdad, in mezzo alla guerra Iran – Iraq, ecco per me, studiare russo era stata un’avventura più grande delle montagne del piccolo Atlante e della guerra Iran – Iraq, era stata una cosa che aveva cambiato il mio modo di camminare, di pensare, di muovermi, di dormire, di leggere, di parlare, di mangiare, di immaginare, di stare fermo, di ridere, di piangere, di sospirare, di disperarmi, di chiedere scusa, di arrabbiarmi, di concentrarmi e di portare pazienza e che era stata una cosa che, se non l’avessi fatta, nella mia vita, chissà dove sarei andato a finire, e mi sono detto che forse valeva la penna di raccontarla, questa avventura qua.

– Più volte in questo romanzo, ritorna il tema del suo periodo russo come chiave di volta interpretativa sul mondo, ma anche rispetto ad un percorso esistenziale. Ma che cos’è stata questa formazione russa?

Credo che, come vale per me con la Russia, vale per qualcun altro per la Francia, o per il Sudamerica, o per il Portogallo, o non so, è la fortuna di trovare un posto del quale non finisci mai di esser curioso. Io l’ho conosciuta nel ’91, in una condizione che viene raccontata bene da una storiella di una serie televisiva americana, The Americans, dove c’è un colonnello del Kgb che racconta che, nella strada principale di Mosca, ulica Gor’kogo una donna entra in un ristorante e chiede: «Non avete della carne?», e il ristoratore risponde «La carne non ce l’hanno nel ristorante di fronte, qui non abbiamo il pesce». Non c’era niente, allora, a Mosca, ed era bellissimo.

– E la Russia di oggi come le appare?

All’epoca, nel ’91, mi sembrava che la Russia fosse trent’anni indietro, rispetto all’Italia, adesso, nel 2018, Mosca è una città modernissima e molto più avanti, per esempio, di Roma, che, dopotutto, è la nostra capitale; ma una cosa che trovo incantevole è il fatto che oggi, a Mosca e a San Pietroburgo, convivono questa Russia moderna, quella sovietica che ho conosciuto io nel ’91 e quella imperiale del sette e dell’ottocento.

– Il titolo del libro richiama un’altra opera – La piccola battaglia portatile – che affronta, come tema principale, il rapporto padre/figlia. In questo caso invece sembra quasi che il cuore del romanzo sia un rapporto madre/figlio, dove la madre è la Russia, paese di elezione e formazione. Anche nel libro torna spesso il tema della relazione affettiva: esiste un nesso fra questi due mondi che, sempre stando alle parole del testo, non si toccano mai, o si sono toccati un’unica volta?

Ho presentato il libro a Mantova, e una mia amica, che era lì a sentire, mi ha detto che tutti e due i libri, secondo lei, sono due libri d’amore. Io le ho risposto che amore è una parola che faccio fatica a dire, e che amare è un verbo che non uso quasi mai, probabilmente perché in dialetto parmigiano non esiste, non si dice “Ti amo”, da noi, si dice “At voi ben”, e “A mor”, in parmigiano, non significa Amore, ma “Io muoio”, e la mia lingua, anche quando parlo della Russia, ha molto a che fare col dialetto parmigiano, credo, e con il modo in cui si parla per le strade di Parma. Credo però che forse avesse ragione quella mia amica, sono due romanzi d’amore.

– E adesso quale prossimo viaggio ci aspetta?

Adesso vediamo.

[Intervista a Caterina Bonetti uscita oggi sulla Gazzetta di Parma]

Lo spunto per migliorarci

mercoledì 26 Luglio 2017

Oggi ho comprato un giornale, la Gazzetta di Parma, e non ci ho trovato scritto quasi niente tranne una lettera, forse, a pagina 46, che dice:
«Egregio direttore, è con estremo piacere che sabato 22 luglio abbiamo vista pubblicata sulla sua rubrica la lettera del signor Gianni Formia, che si complimentava per la riuscita della nostra 1ª Festa della Rana. Per la nostra associazione, fondata interamente sul volontariato, è stata una grande soddisfazione. Vedere un piccolo paese come Roccabianca, affollato di gente, non capita tutti i giorni e questo per noi è uno stimolo per andare avanti e riprovarci nei prossimi anni, cogliendo anche dalle critiche, lo spunto per migliorarci. Ringraziamo quindi, oltre al signor Fornia, tutte le persone che ci hanno dato fiducia e sono venute ad apprezzare la nostra cucina. Vi aspettiamo nel 2018.

Una lettera alla Gazzetta di Parma

giovedì 29 Agosto 2013

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Una delle cose belle di essere a Parma, o in provincia di Parma, è poter leggere le lettere alla Gazzetta di Parma, come per esempio questa: «Signor direttore, ogni qualvolta che le scrivo una lettera, come fanno tanti altri, dopo qualche giorno, puntualmente, mi arrivano lettere assolutamente anonime, piene di insulti di ogni tipo. Non è che un anonimo imbecille mi disturbi molto, anzi mi fa molta pena, però è l’ignoranza di queste persone che fa più paura, perché un popolo ignorante non guarderà mai al futuro, ma guarderà sempre al passato, cioè resterà sempre ignorante. E proprio questi cosiddetti «signori» che sono rimasti con la loro mentalità al medioevo e che trovano la loro forza nella vigliaccheria nascondendosi dietro l’anonimato, resteranno sempre degli imbecilli e anonimi ignoranti. Giorgio Fornasari – Fontanellato, 19 agosto».

Una lettera

giovedì 21 Marzo 2013

Signor direttore,
su invito del cimitero, sono andata per la riesumazione di mia madre, ma il lavoro era già stato fatto, e io volevo riprendere la catenina d’oro e la fede nuziale che le avevo messo nella bara al suo funerale. Non c’erano più. E’ una vergogna, non rispettano nemmeno i morti. E non è la prima volta che accade.
Giovanna Rossi

[dalla Gazzetta di Parma: clic]

Il recente concerto

lunedì 12 Aprile 2010

Sulla Gazzetta di Parma di ieri, pagina dello spettacolo, c’era un grande articolo sul recente concerto di Samuele Bersani all’auditorium Paganini. L’articolo cominciava dicendo che andare a un concerto è molto meglio che ascoltare un album, perché in un concerto si può apprezzare il calore e l’umanità del cantante. E così è stato il concerto dell’altro giorno, c’era scritto nell’articolo, quando il calore e l’umanità di Bersani ha permesso di superare anche i soliti problemi tecnici che ci sono all’auditorium Paganini quando c’è della musica amplificata, anche se questa volta, c’era scritto, ci sono stati dei miglioramenti, per esempio si capivano le parole.

Lettera firmata

giovedì 6 Novembre 2008

Gentile direttore,
mi spiace vedere e leggere che un nobile pettirosso è stato scambiato da qualche redattore distratto in un più popolare passero. Tutti uccelli sono, è vero, ma essere precisi è ancora importante.
Lettera firmata
Parma, 29 ottobre 2008
(Pubblicata sulla Gazzetta di Parma del 1 novembre 2008)