lunedì 25 Novembre 2019
Quando i ragazzi della nostra strada iniziavano a vantarsi dei loro parenti famosi, io tacevo, li lasciavo parlare.
I militari erano i più considerati. Ma anche tra i militari c’era una graduatoria particolare, che parlava all’immaginazione dei ragazzi. Al primo posto c’erano i doganieri, al secondo i piloti d’areo, al terzo i carristi, e poi gli altri. I vigili del fuoco erano fuori concorso.
A quel tempo non c’era ancora la guerra, e io, come per dispetto, non avevo nessun parente nell’esercito. Però avevo uno asso nella manica, che usavo con discreto successo:
– Io invece ho uno zio matto – dicevo con voce tranquilla.
[Fazil’ Iskander, Nočnoj vagon, Moskva, Panorama 2000, p. 66]
mercoledì 16 Ottobre 2019
Un bel giorno fui licenziato dalla redazione di un quotidiano giovanile della Russia Centrale nel quale avevo lavorato pressapoco un anno. Ero stato assegnato a quel giornale dopo la fine degli studi universitari.
Per una diabolica coincidenza di circostanze venni a scoprire che il direttore scriveva poesie. E, fin qui, niente di grave. Il fatto è che, per una forma di rispetto nei confronti degli amministratori locali, le pubblicava con uno pseudonimo. Ben presto, però, la sua si rivelò una fatica inutile dal momento che gli amministratori locali sapevano già da tempo che scriveva poesie ed erano disposti a considerare questa sua debolezza un fatto del tutto perdonabile per un direttore di una giornale per la gioventù.
L’amministratore locale lo sapeva, io però, lo ignoravo. Così, durante la prima riunione di redazione, non esitai a stroncare alcune poesie pubblicate dal nostro giornale. Sebbene le avessi criticate senza alcun sarcasmo, probabilmente non ero riuscito a nascondere una sottile sfumatura di snobismo moscovita; cosa assolutamente giustificabile, del resto, per un giovane appena uscito dall’Università della capitale.
Durante la mia esibizione avevo notato con la coda dell’occhio una strana espressione sulle facce dei colleghi presenti ma, a dir la verità non me n’ero curato affatto, pensando semplicemente che fossero rimasti piuttosto colpiti dall’eleganza delle mie argomentazioni.
Probabilmente l’avrei passata liscia se non fosse stato per un piccolo dettaglio: i versi, composti da un sedicente giovane contadino comunista, esaltavano i vantaggi della raccolta meccanizzata delle patate rispetto al metodo manuale, più antiquato.
Per semplicità d’animo e ingenuità letteraria mi ero convinto che di versi come quelli ne arrivassero a bizzeffe in tutte le redazioni del mondo e così, alla fine del mio intervento, per non infierire troppo sull’autore, affermai che, dopo tutto, per un giovane contadino comunista, erano scritti abbastanza correttamente.
[Fazil’ Iskander, La costellazione del caprotoro, traduzione di Cristina Di Pietro, Palermo, Sellerio 1992 (2), pp. 13-14]
giovedì 10 Maggio 2018
Sentimento sublime, la cui bellezza Puškin ha cantato tante volte nei suoi versi. Insaziabile, doveva esser così affamato di questo sentimento, soprattutto nella sua forma materna, che avendo dedicato tanti versi alla njanja Arina Rodionovna, decise di creare anche nella sua prosa, con la figura di Savel’ič [il servo nella Figlia del capitano], un’altra immagine della devozione materna.
Da ciò, beninteso, non consegue che la madre del poeta non dimostrasse nessunissimo sentimento materno nei suoi confronti. Probabilmente ne dimostrava, ma non abbastanza. E per un poeta è meglio e più salutare non essere amati affatto che doversi accontentare di briciole d’amore.
[Fazil’ Iskander, L’energia della vergogna, traduzione di Emanuela Guercetti, Milano, Salani 2014, p. 143]
giovedì 5 Maggio 2011
Allo stesso modo in cui, passando davanti a una stalla, basta un attimo di distrazione e ti ritrovi a pestare una ciambella di sterco, così a quei tempi, a detto di zio Sandro, accadeva di impegolarsi in qualche brutta storia non appena mettevi il naso fuori di casa.
[Fazil’ Iskander, Sandro di Čegem, trad. di Ljiliana Avirović, Torino, Einaudi 1998, p. 119]
giovedì 15 Aprile 2010
Così, per esempio, nel capitolo Bitva na Kodore (La battaglia del Kodor) Iskander descrive in forma di allegoria esopica la lotta dei contadini dell’Abchazija contro la colletivizzazione condotta dal centro. Su questo background si staglia la storia di Micha, un ricco agricoltore che ha fatto la sua fortuna allevando maiali. La sua ricchezza deriva dal fatto che egli porta i maiali nei boschi di castagni per il pascolo autunnale, dove loro ingrassano a tal punto da dover essere trasportati a dorso d’asino e questo procura al proprietario un enorme ricavato. Sul trasporto degli animali Iskander costruisce la sua allegoria:
A onor del vero, erano tempi inquieti. Così che quando la gente cominciò a vedere per le strade dell’Abchazija dei somari carichi di maiali, di questi pesantissimi otri di grasso che si lamentavano in modo rabbioso sul dorso dei docili e orecchiuti animali, molti, soprattutto gli anziani videro in questo spettacolo un cupo presagio.
– Attirerai la malasorte – dicevano a Micha, fermandosi per la strada ad osservare questa strana carovana (Fazil’ Iskander, Sandro di Čegem).
L’immagine dei maiali che cavalcano miti asinelli, costruita sul senso gergale di svin’ja (maiale), usato per marcare una persona che agisce in modo abietto, è davvero un cupo segno premonitore dei tempi che verranno. E non fosse stato per la lingua di Esopo, così efficace da aver ‘assordato’ il censore, il passo non sarebbe di certo apparso nell’edizione del 1973.
[Maria Zalambani, Censura, istituzioni e politica letteraria in URSS (1964-1985), Firenze, Firenze University Press 2009, p. 166]
lunedì 27 Ottobre 2008
È uscito ieri sul manifesto un pezzo sul libro di Giovanni Maria Bellu L’uomo che volle essere Peròn.
Io l’avevo intitolato Chilometri sardi, la redazione del giornale l’ha intitolato Tra la Sardegna e il Caucaso, e, a vederlo impaginato, con una foto di Orgosolo degli anni cinquanta (di Guglielmo Coluzzi) che io quando l’ho vista ho pensato che fosse un contadino caucasico, mi sembra che il loro titolo ci stia molto bene. Lo metto qua sotto (è un po’ lungo).
Chilometri sardi
Ho saputo del libro di Giovanni Maria Bellu L’uomo che volle essere Peròn (Milano, Bompiani 2008, pp. 356, 19 euro) quest’estate, in Sardegna, all’Argentiera, dentro un piccolo festival che si chiama Sulla terra leggeri, dove una sera, su una piazza antistante una miniera dismessa, Bellu ne parlava insieme a Marino Sinibaldi, e a me è subito venuto in mente il Caucaso.
Una delle cose mi piacciono, del Caucaso, è il fatto che la gente che ci vive, i cabardini, gli osseti, i ceceni, i georgiani, gli armeni, i circassi, gli abchasi, gli ingusci, i daghestani e anche gli altri, visti così da lontano, sembra che abbiano conservato, indipendentemente dai vari governi che si alternavano al potere in quella determinata regione, e dalle varie legislazioni alle quali, di volta in volta, quella regione era sottoposta, una legislazione parallela, ufficiosa ma più importante di quella ufficiale, una sovralegislazione che è rimasta invariata nel corso dei secoli e che forse deriva, detto volgarmente, da quello che i russi chiamano il byt, cioè dalla vita quotidiana, dalla pratica, dall’uso; si è sempre fatto così, si è sempre pensato così e si continua a fare così e a pensare così sia sotto lo zar che sotto il governo sovietico che sotto quella roba lì che c’è adesso.
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