venerdì 29 Aprile 2016
FELLINI: Per quanto si faccia, non si trova pace.
SIMENON: Ma la pace non esiste! Ce la siamo inventata noi. La pace è una cosa che fa la fortuna del Papa, perché lui promette agli uomini la pace dell’anima e del cuore. Il Papa dice: «Adesso siete infelici, ma un giorno canterete l’osanna in mezzo agli angeli». È stato il grande racket delle religioni. Di ogni religione: sono tutte uguali! non c’è niente che ci determini, siamo un momento impercettibile dell’evoluzione umana. L’uomo si sta evolvendo da venti miliardi di anni, e in venti miliardi di anni è passato dall’ostrica a quello che siamo. Perché mai dovremmo pretendere la pace?
FELLINI: Non c’è di che essere ottimisti.
SIMENON: Come si può essere ottimisti quando si hanno i piedi per terra?
FELLINI: Lei sente comunque di avere realizzato qualcosa?
SIMENON: No. Il mio sogno era di avere una stanzetta in una via piena di negozi, e di scrivere per guadagnarmi il pane, niente di più. Me ne sarei stato lì a guardare dalla finestra la strada, la vita scorrere sotto di me. Non ho mai avuto grandi ambizioni.
[Carissimo Simenon Mon cher Fellini. Carteggio di Federico Fellini e Georges Simenon, traduzione di Emanuela Muratori, Milano, Adelphi 1998, p. 137]
venerdì 29 Aprile 2016
In questi giorni sto girando le sequenze chiamate genericamente «le visioni»: si tratta di un viaggione precipitoso e sospeso del protagonista che scivola in uno spiralesco toboggan, inabissandosi, risalendo e rituffandosi nell’oscurità sfolgorante della propria mitologia femminile: le vaste gambone di Rosina, la cameriera, golosamente spiate da sotto il tavolo quando era bambino; l’opulenta moglie del dentista, gli invisibili fruscii del suo spogliarello nella penombra del capanno, prima di uscire nella luce abbacinante dei una spiaggia d’agosto verso un mare fermo e irraggiungibile, in compagnia di un bellone che assomigliava a Tarzan; la composta e prorompente insegnante che dava ripetizioni di latino; la prima puttana, il suo immenso culone candido e imbronciato che salendo dondolante per le scale del casino sembrava sempre sul punto di dirci, di rivelarci qualcosa, stregandoci in questo modo per sempre; le biondissime motocicliste del «Giro della Morte», fasciate di cuoio nero, spavalde e crudeli; la pescivendola, infagottata di maglie come un samurai, il viso, le braccia e le tettone madide di sudore e luccicanti come l’argentea vita palpitante nelle ceste. Le confesso, caro Simenon, che non vorrei uscire più da questa zona del film, mi piacerebbe restare qui per sempre, nel suo tepore sfavillante e sonnolento. Non capitava così anche a lei, quando scriveva i suoi romanzi, di trovarsi in certe atmosfere, situazioni e in compagnia di certi personaggi che non avrebbe voluto abbandonare più?
[Carissimo Simenon Mon cher Fellini. Carteggio di Federico Fellini e Georges Simenon, traduzione di Emanuela Muratori, Milano, Adelphi 1998, pp. 75-76]