domenica 22 Settembre 2024

Uno si chiamava Aleksandr Blok e teneva un diario e, alla data del 28 gennaio del 1909, aveva scritto, “L’ubriacatura del 27 gennaio è – spero – l’ultima”. Ma già il giorno dopo si era dovuto correggere e aveva scritto, “Oh no: del 28 gennaio”.
Aleksandr Blok, Taccuini, trad. Emanuela Guercetti, Se, Milano 2014
martedì 10 Marzo 2020

Uno si chiamava Aleksandr Blok e teneva un diario e, alla data del 28 gennaio del 1909, aveva scritto, “L’ubriacatura del 27 gennaio è – spero – l’ultima”. Ma già il giorno dopo si era dovuto correggere e aveva scritto, “Oh no: del 28 gennaio”.
[Dal Repertorio dei matti della letteratura russa, in preparazione (viene da Aleksandr Blok, Taccuini, trad. Emanuela Guercetti, Se, Milano, 2014)]

sabato 6 Luglio 2019

All’epoca avevo già un contratto per pubblicare il romanzo in volume – con la casa editrice Malaja Gvvardija. Mi restava ancora la speranza di ripristinare qualcosa: il libro «completo» doveva pur differenziarsi in qualche modo dalla «versione giornalistica» [pubblicata sulla rivista «Junost’»].
Ma fu subito chiaro che la casa editrice non voleva sentir parlare di aggiunte: al contrario, esigeva ulteriori tagli. E qui ebbe inizio una storia possibile solo in Unione Sovietica.
Quei numeri della rivista «Junost’» arrivarono all’estero. E subito in molti paesi si cominciò a tradurre il romanzo. Fui subissato dalle lettere perplesse dei traduttori: non capivano molti brani.
Per esempio, la censura aveva tagliato così sconsideratamente che nel capitolo «Professione: incendiari» gli incendiari non c’erano più, neanche un accenno, la parola stessa non compariva ed erano stati lasciati solo alcuni paragrafi sul protagonista che leggeva Puškin.
[Anatolij Kuznecov, Babij Jar, traduzione di Emanuela Guercetti, Milano, Adelphi 2019, p. 18]

venerdì 10 Maggio 2019

Subito dopo la mia morte il mio testamento deve essere pubblicato su tutte le riviste e le gazzette, affinché non capiti che, ignorandolo, qualcuno si renda senza volerlo colpevole nei miei confronti e abbia poi a rimproverarselo.
[Nikolaj Gogol’, Brani scelti dalla corrispondenza con gli amici, a cura di Fausto Malcovati, traduzione di Emanuela Guercetti, Firenze, Giunti 1996, p. 257]
martedì 12 Giugno 2018

Che non possa più bersi un bicchierino di vodka la mattina, il cane!
[Nikolaj Gogol’, Veglie alla fattoria presso Dikan’ka, traduzione di Emanuela Guercetti, Milano, Rizzoli 2016, p. 144]

mercoledì 30 Maggio 2018

E uno degli ospiti… Be’, quello poi era un signorotto tale che te lo vedevi subito nei panni di un assessore o di un giudice. Capitava che mettesse davanti a sé un dito e, guardandone la punta, attaccasse a raccontare, ma in maniera così lambiccata e astrusa, che pareva un libro stampato! Certe volte ascoltavi, ascoltavi, e ti assaliva il dubbio. Non ci capivi un acca, neanche a morire. Dove sarà andato a pescarle, certe parole! Foma Grigor’evič una volta a questo proposito gli inventò un bell’apologo; gli raccontò di uno scolaro che dopo aver imparato a leggere e scrivere da un chierico, tornò dal padre e divenne un tale latinista che dimenticò perfino la nostra lingua ortodossa. Tutte le parole le faceva finire in «us». La vanga per lui era vangus, la donna donnus. Ecco, una volta accadde che andò nel campo insieme al padre. Il latinista vide un rastrello e domandò al padre: «Papà, come lo chiamate questo, voialtri?». E, con la testa tra le nuvole, salì col piede sui denti del rastrello. Il padre non fece in tempo a rispondergli, che il manico si drizzò di slancio e – bang sulla fronte. «Maledetto rastrello!» gridò lo studente, portandosi la mano alla fronte e facendo un salto di un metro «Che male che fa! che il diavolo spinga suo padre giù dal ponte!» Hai capito! Si era ricordato anche il nome, il cocco di mamma! Tale apologo non andò a genio al ricercato narratore. Senza dire una parola, si alzò dal suo posto, si piantò a gambe larghe in mezzo alla stanza, piegò un po’ la testa in avanti, infilò la mano nella tasca posteriore del suo caffetano verde pisello, ne estrasse una tabacchiera rotonda laccata, diede un colpetto col dito sul muso di non so che generale busurmano che ne ornava il coperchio, e raccolta una notevole presa di tabacco tritato con cenere e foglie di levistico, se la portò al naso col braccio a bilanciere e col naso aspirò al volo tutto il mucchietto, senza neppure sfiorare il pollice, – e tutto senza una parola; ma quando ebbe infilato la mano nell’altra tasca e ne ebbe tratto un fazzoletto di cotone azzurro a quadri, solo allora borbottò fra sé qualcosa di simile al detto: «Non gettate le perle ai porci»… “Adesso ci sarà una lite” pensai, notando che le dita di Foma Grigor’evič si preparavano a far marameo. Fortunatamente, la mia vecchia ebbe l’ispirazione di mettere in tavola una focaccia calda col burro. Tutti si misero all’opera. La mano di Foma Grigor’evič, invece di fare un gestaccio, si protese verso la focaccia e, come sempre accade, cominciarono i complimenti all’abile padrona di casa.
[Nikolaj Gogol’, Veglie alla fattoria presso Dikan’ka, traduzione di Emanuela Guercetti, Milano, Rizzoli 2016, pp. 23-24]

giovedì 10 Maggio 2018

Sentimento sublime, la cui bellezza Puškin ha cantato tante volte nei suoi versi. Insaziabile, doveva esser così affamato di questo sentimento, soprattutto nella sua forma materna, che avendo dedicato tanti versi alla njanja Arina Rodionovna, decise di creare anche nella sua prosa, con la figura di Savel’ič [il servo nella Figlia del capitano], un’altra immagine della devozione materna.
Da ciò, beninteso, non consegue che la madre del poeta non dimostrasse nessunissimo sentimento materno nei suoi confronti. Probabilmente ne dimostrava, ma non abbastanza. E per un poeta è meglio e più salutare non essere amati affatto che doversi accontentare di briciole d’amore.
[Fazil’ Iskander, L’energia della vergogna, traduzione di Emanuela Guercetti, Milano, Salani 2014, p. 143]

martedì 27 Settembre 2011

Dice il proverbio russo: «Svestimi, toglimi le scarpe, mettimi a dormire, coprimi, rimboccami le coperte, fammi il segno della croce, che poi, sta’ tranquillo, ad addormentarmi ci penso io».
[Gonćaròv, Oblòmov, con un saggio di Nikolàj Dobroljùbov, traduzione e introduzione di Emanuela Guercetti, Milano, Mondadori 2010, nota 1, p. 610]
domenica 12 Dicembre 2010

Secondo lei, il popolo russo è il più religioso del mondo: falso! Il fondamento della religiosità è il pietismo, la devozione, il timor di Dio. Il russo invece pronuncia il nome di Dio grattandosi il sedere. E dell’immagine sacra dice: se fa comodo, si prega, e se non fa comodo ci si copron le pentole.
[Vissarion Belinskij, Lettera a Gogol’, in Nikolaj Gogol’, Brani scelti dalla corrispondenza con gli amici, a cura di Fausto Malcovati, traduzione di Emanuela Guercetti, Firenze, Giunti 1996, p. 257]