Freno

venerdì 2 Giugno 2017

Gli studenti si lamentano. Dicono che in storia prendono brutti voti perché il manuale non è chiaro: troppe crisi economiche, troppe chiacchiere complicate. Io rispondo: per forza, non leggete mai, solo musica e televisione, siete semianalfabeti, che pretendete? Però poi mi faccio forza e detto appunti che scopiazzo da un libro per le scuole medie inferiori. “Scrivete” dico. “Luigi XIV decise –” “Piano,”, mi interrompono, “lei corre troppo”. “Luigi, ripeto, XIV / decise / di tenere / a freno / la corte.” Dall’ultimo banco l’allievo Di Marco chiede: “Freno con la maiuscola?”. E l’allievo Di Biase, che ama la geografia: “Professore, dove si trova Freno?”.
Allora depongo il libro, mi metto seduto e penso all’allievo Cataldi, mentre Di Biase sussurra: non si ricorda dove si trova Freno.

[Domenico Starnone, Ex cattedra e altre storie di scuola, Milano, Feltrinelli 2017, p. 89]

Per il resto

venerdì 21 Ottobre 2016

Domenico Starnone, Scherzetto

Per il resto continuai a rigirarmi nella testa le parole dell’editore, e poiché il buono che potevo trovarci risultò sempre più esile, l’irritazione iniziale si mutò in rabbia. A scuola quella parola non piaceva, maestri e professori ci correggevano. No rabbia – ci rimproveravano – si dice ira, la rabbia ce l’hanno i cani. Ma la lingua napoletana che si parlava nel Vasto, al Pendino, al Mercato – i quartieri in cui ero cresciuto io e prima erano cresciuti mio padre, i nonni e i bisnonni, forse tutti i miei antenati – non conoscevano la parola ira, l’ira di Achille e di altri attivi dentro i libri, ma solo ‘a raggia. La gente di questa città, pensai, di questi quartieri e piazze e strade e vichi e banchine del porto piene di fatica e carichi e scarichi illegali, s’arraggiava, non s’adirava. S’arraggiava a casa, per strada, soprattutto quando vagava in cerca di soldi senza trovarne. E spesso bastava poco per azzannarsi con altri arraggiati. La raggia, sì, la raggia, altro che l’ira. Ti sei adirato? Vi siete adirati? Si sono adirati? Macché. Maestri e professori ci davano un vocabolario che era inservibile per quelle strade. Lì c’era una città di cani e l’ira non aveva niente a che fare col sangue agli occhi che mi veniva per vie come appunto quella che stavamo imboccando adesso e che portava su corso Garibaldi. Quando uscivo di scuola e non avevo voglia di tornare a casa perché ero furibondo contro compagni aguzzini, contro professori sadici, era la rabbia che mi rompeva il petto, gli occhi, la testa, e per calmarmi facevo il giro lungo, andavo fino a Porta Nolana, a volte imboccavo via San Cosmo, altre volte, col sangue che non si acquietava, andavo per il Lavinaio, andavo al Carmine, camminavo selvatico per spazi scempiati, raggiungevo il Porto. E guai se per strada qualcuno distrattamente mi urtava, bestemmiavo santi e madonne, ero non adirato ma arraggiato, e ridevo sfottente, poi sputavo, tiravo mazzate sperando di riceverne. Oggi nessuno che mi conosca lo direbbe, ma ero proprio così. Quanto sarebbe bello – mi dissi – tornare a Milano e dopo più di mezzo secolo risorgere come stato da adolescente, andare dritto filato in corso Genova, imboccare l’edificio dove ha sede la casa editrice, salire al terzo piano e senza preamboli sputare in faccia al piccolo scostumato signorino che ha criticato il mio lavoro: non solo quelle tavole, no, ma tutto il lavoro di una vita, senza rispetto.

[Domenico Starnone, Scherzetto, Torino, Einaudi 2016, p. 34-35]

Le parole nei romanzi

giovedì 22 Gennaio 2015

Starnone, Lacci

Siccome ho l’impressione che la maggior parte delle cose che ho studiato a scuola siano cose che non ho mai usato in vita mia, e che mi son dimenticato presto, quando mi succede che mi ricordo una cosa che ho studiato, e che magari la uso, anche, devo dire che mi stupisco, un po’, e questo stupore è saltato fuori in questi giorni che ho letto Lacci di Domenico Starnone, romanzo pubblicato da poco da Einaudi che mi ha fatto venire in mente un saggio di Michail Bachtin che ho studiato per l’esame di francese 1 all’università, anno accademico 1988/1989. Si intitolava, quel saggio, La parola nel romanzo, e diceva, tra le altre cose, che la caratteristica dei romanzi moderni era la polivocità, mentre caratteristica degli antichi romanzi cavallereschi, per esempio l’Amadigi di Gaula, era l’univocità. Cioè nei romanzi cavallereschi, come nell’Amadigi, il cavaliere e il suo scudiero, che avevano, com’è naturale, provenienza sociale e educazione completamente diverse, parlavano nello stesso modo, perché i romanzi cavallereschi, primo tra tutti l’Amadigi, erano il modello linguistico, insegnavano «la bella lingua e il buon tono». «Si sono composti interi libri, – scrive Bachtin – come Il tesoro di Amadigi, Il libro dei complimenti, dove erano raccolti, tratti dal romanzo, modelli di conversazioni, di lettere, di discorsi, ecc. Il romanzo cavalleresco, – dice ancora Bachtin – dà una parola per tutte le situazioni e le peripezie possibili, contrapponendosi sempre alla parola volgare con le sue grossolane vedute».
Il romanzo moderno, invece, secondo Bachtin, primo tra tutti il Don Chisciotte, è un’opera polifonica, dove il cavaliere, Don Chisciotte, parla come parlano i cavalieri negli antichi romanzi cavallereschi, soprattutto nell’Amadigi, mentre lo scudiero, Sancho Panza, che ha un’educazione e una provenienza completamente diverse, parla in un modo completamente diverso, usa tantissimi proverbi e fa un mucchio di sfondoni grammaticali ed è anche, fisicamente, completamente diverso, dal suo padrone. Continua a leggere »

Parlami di Galilei

giovedì 8 Gennaio 2015

Starnone, Ex cattedra

Sono passati pochi giorni e ho chiamato alla cattedra Conocchia.
«Parlami di Galilei, Barbara».
«Galileo Galilei?»
«Proprio lui».
Dopo aver premesso che aveva studiato tutta la notte e dopo che i suoi compagni hanno testimoniato che era vero come se fossero rimasti svegli apposta, ha cominciato. Sono stato a sentire compostamente la sua voce cantilenante che mi informava sulle tappe fondamentali della vita di Galileo Galilei e l’ho interrotta solo una volta, quando ha detto:
«Galileo Galilei faceva esperimenti buttando i gravi giù dalla torre di Pisa».
Con pacatezza le ho consigliato innanzitutto di chiamarlo solo Galilei per non affaticarsi e poi le ho domandato: «Cosa sono questi gravi che Galilei buttava giù dalla torre di Pisa, Conocchia?»
Gelo.
La mia alunna ha dato uno sguardo allarmato al libro che si era portata per conforto e che teneva aperto sulla cattedra, ma senza risultato. Allora si è rivolta supplichevole ai compagni più fidati che già consultavano freneticamente manuali per scoprire cosa fossero i gravi. Quindi, messa alle strette, ha mormorato incerta: «Forse sono dei malati».
Risatina dei più colti, smorfia sofferta di Conocchia, io freddo: «E Galilei li buttava giù…».
«Dalla rupe Tarpea lo facevano».
«Brava, dalla rupe Tarpea forse sì, ma non dalla torre di Pisa».
Conocchia si è avvilita: «E allora Galileo Galilei che buttava?»
Mi sono strofinato gli occhi con pollice e indice, ho detto: «Barbara, niente panico: tu stai sulla torre di Pisa…»
«Con Galileo Galilei» ha mormorato lei per chiarirsi bene la situazione.
«Sì, e vuoi sperimentare il moto dei gravi. Che fai?»
La ragazza ha guardato di nuovo la classe, ma questa volta con rabbia, come per dire: sta-te sentendo le domande assurde che mi fa questo?
Allora sono diventato più duro: «Non ti perdere in un bicchier d’acqua, Conocchia! State lì tu e Galilei, soli, in cima alla torre. Vi siete portati alcuni gravi. Cosa sono, che ve ne fate?»
Silenzio, occhi lucidi di Conocchia. Mi sono intenerito e ho deciso di aiutarla: «Su, è facile: ve ne servite evidentemente per sperimentare la forza… la forza di gra… la for-za di gra-vi…»
«…danza!» ha urlato sghignazzando Soratte.
Mentre la classe se la godeva, Conocchia ha cominciato a piangere.

[Domenico Starnone, Ex cattedra e altre storie di scuola, Milano, Feltrinelli 2006, pp. 148-149]

Il buon senso

giovedì 13 Ottobre 2011

Non che Gambia disprezzasse il buon senso. Era contento della sua vita sessuale regolata da relazioni d’amore lunghe, due matrimoni, pochi eccessi. Ai suoi occhi un uomo veramente assennato doveva imparare presto a trattenere la voglia di espellere sperma di continuo e dedicarsi agli obblighi e ai riti della civile convivenza: per esempio il lavoro, la gestione dei beni, andare al cinema, leggere un libro, ascoltare musica, incontrare amici, debellare nemici, parlare di politica o vacanza. Il buon senso per lui era l’argine contro le pretese scombinate dei cinque sensi, la sentinella che sapeva dire al momento giusto: amici miei, basta, se esagerate a toccare, assaporare, fiutare, guardare, ascoltare per dare sempre e soltanto soddisfazione al cazzo, il piacere si rovescerà in dispiacere e il godimento in ribrezzo funerario.

[Domenico Starnone, Autobiografia erotica di Aristide Gambía, Torino, Einaudi 2011, p. 5]

Spavento

domenica 18 Ottobre 2009

spavento

Mi piacevano le donne soprattutto quando cadevano quasi senza accorgersene fuori dalla cura studiata di sé. Erano momenti appena percettibili: per esempio, un modo di socchiudere la bocca, all’improvviso incerta; per esempio, un affrettare il passo rompendo l’andatura governata ad arte; per esempio, un certo mordersi il labbro per il dispiacere, un tirare su il mento con rammarico, un correre sotto la pioggia lottando con l’ombrello, un accavallare le gambe lasciando poi ondeggiare un piede, un bloccarsi con disappunto davanti alle porte della metro che si sono appena chiuse, un togliersi le scarpe sospirando di piacere, un infilarsi la gonna stretta con un lieve dondolio dei fianchi, un liberare il petto tirando via dalla scollatura con gesti abili il reggiseno, un raccogliersi la chioma lunga sulla nuca con entrambe le mani svelando le ascelle, un accomodarsi sulla tazza impudicamente chiedendoti con pudore di uscire, un truccarsi allo specchio con lo sguardo un po’ obliquo e la bocca storta, un muovere le mani a dita tese e aperte chiacchierando, un trattenere fieramente le lacrime e alla lacrime poi cedere con rabbia.

[Domenico Starnone, Spavento, Torino, Einaudi 2009, pp. 78-79]