venerdì 2 Aprile 2021

All’interno di quei piccoli zeri sui quali i paladini del bene comune e i signori delle masse fanno conto per le loro operazioni, l’arte introduce delle varianti, punto, punto, virgola, meno, trasformando ogni piccolo zero in un piccolo volto, non sempre grazioso, magari, ma umano.
[Iosif Brodskij, Dall’esilio, trad. di Gilberto Forti, Milano, Adelphi 1988, p. 43]
domenica 19 Gennaio 2020

C’era uno che si chiamava Iosif Brodskij che di mestiere faceva il poeta. Per le sue poesie era stato accusato di parassitismo sociale e poi costretto a lasciare il suo paese. Della sua condizione di scrittore in esilio pensava che somigliasse a quella di un cane o di un uomo catapultato dentro a una capsula e che la sua capsula era il linguaggio. Il linguaggio in esilio diventa destino, diceva, prima ancora di diventare un’ossessione o un dovere.
(Dal Repertorio dei matti della letteratura russa, in preparazione, questo matto è di Barbara Soprani)
martedì 24 Marzo 2015

Chi scrive una poesia la scrive perché la lingua gli suggerisce o semplicemente gli detta la riga seguente. Quando comincia a scrivere una poesia, di regola il poeta non sa come andrà a finire; e a volte gli accade di essere molto sorpreso del risultato, poiché spesso questo si rivela migliore di quanto lui si aspettasse, spesso il pensiero lo porta più in là di quanto lui immaginasse. Ed è il momento in cui il futuro della lingua interviene nel proprio presente e lo invade.
Esistono, come si sa, tre modi di cognizione: quello analitico, quello intuitivo e il modo noto ai profeti biblici, la rivelazione. Ciò che distingue la poesia dalle altre forme letterarie è che usa insieme tutti e tre questi modi (orientandosi prevalentemente verso il secondo e il terzo). Tutti e tre sono infatti presenti nella lingua; e accade a volte che mediante una sola parola, un’unica rima, chi scrive una poesia riesca a spingersi là dove nessuno è mai stato prima di lui, più lontano, magari, di quanto lui stesso avrebbe desiderato. Chi scrive una poesia la scrive soprattutto perché l’esercizio poetico è uno straordinario acceleratore della coscienza, del pensiero, della comprensione dell’universo. Quando si è provata una volta questa accelerazione non si è più capaci di rinunciare all’avventura di ripetere questa esperienza; e si cade in uno stato di dipendenza, così come altri possono assuefarsi alla droga o all’alcool. Chi si trova in un simile stato di dipendenza rispetto alla lingua è, suppongo, quello che chiamano un poeta.
[Iosif Brodskij, Un volto non comune, in Dall’esilio, traduzione di Giovanni Buttafava, Milano, Adelphi 1988, pp. 61-62]
domenica 12 Dicembre 2010

C’è un libretto di Brodskij, pubblicato da Adelphi con il titolo Dall’esilio, son meno di 70 pagine, 68, son tre discorsi, La condizione che chiamiamo esilio e Discorso di accettazione (tradotti da Gilberto Forti) e Un volto non comune. Discorso per il premio Nobel (tradotto da Giovanni Buttafava), c’è questo libretto che tutte le volte che lo apro ci trovo delle cose che mi sembra di non avere mai letto; son meno di 70 pagine, son 68, l’avrò letto venti volte ma è come se avesse un doppio fondo, tutte le volte mi chiedo: «Ma c’era, questo?». Anche oggi, l’ho aperto a pagina 45 e ho letto: «Uno dei meriti della letteratura è appunto quello di aiutare una persona a rendere più specifico il tempo della propria esistenza, a distinguersi dalla folla dei suoi predecessori e da quella dei suoi contemporanei, a evitare la tautologia – cioè il destino di chi può fregiarsi del titolo onorifico di “vittima della storia”». Che è una cosa, è ridicolo, ero convinto perfino di averla pensata io, invece deve averla pensata Brodskij, ogni tanto mi viene il dubbio che qualcuno mi faccia degli scherzi mi sostituisca il libretto dopo averci cambiato il contenuto, allora vado a cercare dei pezzi che mi ricordo bene, ce ne son due, in particolare, il primo dice: «Comunque, se vogliamo avere una parte più importante, la parte dell’uomo libero, allora dobbiamo essere capaci di accettare – o almeno di imitare – il modo in cui un uomo libero è sconfitto. Un uomo libero, quando è sconfitto, non dà la colpa a nessuno»; l’altro dice: «Nondimeno, signore e signori, mi fa piacere pensare che noi, cioè voi e io, respiravamo la stessa aria, mangiavamo lo stesso pesce, eravamo inzuppati della stessa pioggia, – a volte – radioattiva, facevamo il bagno nello stesso mare, ci annoiavamo alla vista di conifere della stessa specie. A seconda del vento, le nuvole che vedevo passare davanti alla mia finestra erano state già viste da voi, e viceversa». E le trovo, pagina 35 e 36 e pagina 66, meno male.
[Esce oggi su Libero]