Una strana espressione sulle facce dei colleghi presenti
Un bel giorno fui licenziato dalla redazione di un quotidiano giovanile della Russia Centrale nel quale avevo lavorato pressapoco un anno. Ero stato assegnato a quel giornale dopo la fine degli studi universitari.
Per una diabolica coincidenza di circostanze venni a scoprire che il direttore scriveva poesie. E, fin qui, niente di grave. Il fatto è che, per una forma di rispetto nei confronti degli amministratori locali, le pubblicava con uno pseudonimo. Ben presto, però, la sua si rivelò una fatica inutile dal momento che gli amministratori locali sapevano già da tempo che scriveva poesie ed erano disposti a considerare questa sua debolezza un fatto del tutto perdonabile per un direttore di una giornale per la gioventù.
L’amministratore locale lo sapeva, io però, lo ignoravo. Così, durante la prima riunione di redazione, non esitai a stroncare alcune poesie pubblicate dal nostro giornale. Sebbene le avessi criticate senza alcun sarcasmo, probabilmente non ero riuscito a nascondere una sottile sfumatura di snobismo moscovita; cosa assolutamente giustificabile, del resto, per un giovane appena uscito dall’Università della capitale.
Durante la mia esibizione avevo notato con la coda dell’occhio una strana espressione sulle facce dei colleghi presenti ma, a dir la verità non me n’ero curato affatto, pensando semplicemente che fossero rimasti piuttosto colpiti dall’eleganza delle mie argomentazioni.
Probabilmente l’avrei passata liscia se non fosse stato per un piccolo dettaglio: i versi, composti da un sedicente giovane contadino comunista, esaltavano i vantaggi della raccolta meccanizzata delle patate rispetto al metodo manuale, più antiquato.
Per semplicità d’animo e ingenuità letteraria mi ero convinto che di versi come quelli ne arrivassero a bizzeffe in tutte le redazioni del mondo e così, alla fine del mio intervento, per non infierire troppo sull’autore, affermai che, dopo tutto, per un giovane contadino comunista, erano scritti abbastanza correttamente.
[Fazil’ Iskander, La costellazione del caprotoro, traduzione di Cristina Di Pietro, Palermo, Sellerio 1992 (2), pp. 13-14]