Una pièce del tardo Beckett
All’inizio di marzo mi trovavo a Parigi. Beckett mi cercò in albergo. Gli chiesi come andava e lui rispose sconsolatamente: “Sto in una casa di riposo. E non è la prima”. Gli domandai se potevo passare da lui. Rispose: “Non mi sento in vena di parlare. Ma mi farebbe piacere vederti”. Suggerì venerdì alle 5 di pomeriggio, poi mi diede l’indirizzo. Più tardi, quello stesso giorno richiamò e disse che aveva confuso gli appuntamenti: non potevamo fare sabato, invece? Sì, naturalmente.
L’insegna diceva “Tiers Temps Orléans. Retraite”. Era un edificio assolutamente convenzionale a fianco di un piccolo ospedale, in una tranquilla via residenziale. Attraversai un salone dove cinque anziani guardavano in silenzio la televisione. Trovata un’infermiera, disse che ero venuto a trovare il signor Beckett. Mi condusse attraverso un giardino alla sua stanza, di fronte a un patio. Essendo marzo, il paesaggio era desolato.
La stanza era piccola e disadorna, nuda quasi quanto una cella. Sui muri non c’erano quadri, nessuna ovvia amenità, solo uno stretto letto rifatto con precisione, una scrivania e un tavolo con sopra alcuni libri, tra i quali un dizionario e la copia scolastica della Divina Commedia con annotazioni di suo pugno: l’ultimo anno della sua vita Beckett rileggeva Dante in italiano. Sul pavimento c’era un televisore portatile, sul quale continuava a seguire tennis e calcio. Sul tavolino accanto al letto stavano un telefono e un’agenda. Di fronte, un armadio e quello che pareva un piccolo frigorifero. Le scarpe erano allineate in un angolo. Avrebbe potuto essere la scena di una pièce del tardo Beckett.
[Mel Gussow, Conversazioni con (e su) Beckett, traduzione di Manlio Benigni, Milano, Ubublibri 1998, p. 58]