L’unico consiglio che posso dare

sabato 21 Luglio 2018

Quando ho cominciato a scrivere dei libri, nel 1996, ventidue anni fa, ho sentito una voce, dentro la testa, che mi diceva «Ma cosa vuoi scrivere? Ma chi ti credi di essere, a voler scrivere? Ma non ti rendi conto che sei solo una merda e che non hai nessuna speranza di essere altro?».
In questi giorni, ventidue anni dopo, sto cominciando a scrivere un romanzo che si intitola Che dispiacere, e tutte le volte che mi metto lì che provo a farlo girare, io sento una voce, nella mia testa, che mi dice «Ma cosa vuoi scrivere? Ma chi ti credi di essere, a voler scrivere? Ma non ti rendi conto che sei solo una merda e che non hai nessuna speranza di essere altro?».
E mi viene in mente di quando avevo appena cominciato a scrivere, nel ‘96, un pomeriggio che ero a Parma, in via Cavour, la via del passeggio, in mezzo alla gente, e avevo sentito uno che diceva «Oh, deficiente!», e mi ero voltato convinto che chiamasse me; e mi ero acconto che io, di questo fatto, ero contento.
E all’inizio non capivo come mai, questa contentezza nel momento in cui mi rendevo conto di avere un’autostima, se così si può dire, ai minimi storici, e dopo a pensarci ho pensato che scrivere, per me, io per mettermi a scrivere, ero già grande, avevo più di trent’anni, per provare a scrivere io avevo dato le dimissioni da un lavoro normale: ero responsabile amministrativo di una joint venture franco-italiana che lavorava al metanodotto Artère du midi, nel sud della Francia, e ero nel mondo, dentro un organigramma, ero lì, a metà strada, impegnato a salire, e scrivere, per me, aveva voluto dire uscire dall’organigramma, venirne fuori, rifiutare l’idea che dovevo sforzarmi per essere più bravo, più furbo, migliore degli altri, aveva voluto dire, in un certo senso, aver la patente del deficiente, per questo forse ero contento quando mi ero girato a sentire «Oh, deficiente».
E, a pensarci, quella voce lì che mi chiedeva chi mi credevo di essere e che mi ricordava che ero solo una merda e che non avevo nessuna speranza di essere altro era una voce della quale io, forse, avevo bisogno.
Perché la condizione di uno che si mette a scrivere ha forse a che fare con quella cosa che ha scritto una volta Samuel Beckett, che ha scritto che la speranza è un ciarlatano che non fa che imbrogliarci e che lui, Beckett, ha cominciato a star bene quando l’ha persa, e che la frase che Dante ha messo sulla porta dell’inferno, «Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate», lui, Beckett, l’avrebbe messa sulla porta del paradiso.
E un grande scrittore russo, Viktor Šklovskij, diceva che ogni volta che cominciava a scrivere un libro aveva l’impressione che scrivere quel libro lì fosse un compito al di sopra delle sue possibilità e io, quando l’avevo letto, avevo pensato “Ma allora è normale”, e adesso, quando mi tornano fuori quelle voci che mi dicono «Ma cosa vuoi scrivere? Ma chi ti credi di essere, a voler scrivere? Ma non ti rendi conto che sei solo una merda e che non hai nessuna speranza di essere altro?», ecco, per me quello lì è un segno che andiamo bene: ho scritto quasi quaranta libri, e tutte le volte sono stato visitato da quelle voci che mi dicevano «Ma cosa vuoi scrivere? Ma chi ti credi di essere, a voler scrivere? Ma non ti rendi conto che sei solo una merda?», e se adesso, mentre sto scrivendo un libro, non si presentassero quelle voci lì, mi vien da pensare che dovrei preoccuparmi.
Dopo, una volta che uno il libro l’ha scritto, c’è il mondo dell’editoria, che in giro si dice che sia un mondo che se uno non conosce nessuno, in quel mondo lì, se non è raccomandato, arrivare a pubblicare è impossibile.
Ho conosciuto delle persone che, finito di scrivere un romanzo, se lo mandano per posta e poi tengono la busta chiusa per dimostrare, attraverso il timbro postale, che loro l’avevano finito alla data tale e rivalersi, grazie a questa prova documentale, nel caso che qualcuno gli rubasse il romanzo; io, devo dire, sono ventidue anni che conosco della gente che scrive dei romanzi e che prova a farseli pubblicare, non ho conosciuto nessuno a cui hanno rubato un romanzo, e, da parte mia, io negli ultimi ventidue anni ne ho scritti, in media, due all’anno, non me ne hanno mai rubati, e se me li avessero rubati, non so, come avrei reagito, se fossi stato bravo avrei fatto come quello storico di Reggio Emilia che mi han detto dicesse «Rubatemi pure le idee, tanto io ne ho delle altre».
Però è vero che quando uno comincia a scrivere senza avere nessuna relazione con il mondo dell’editoria può aver l’impressione che collegarsi, in qualche modo, con quel mondo, sia difficilissimo, e che farsi pubblicare un libro, non scriverlo, farselo pubblicare, sia quella l’impresa al di sopra delle sue possibilità.
Ecco, io, di solito, quando sento dei discorsi del genere mi vien da pensare a un libro di Tibor Fischer che si intitola La gang del pensiero che inizia così:
«L’unico consiglio che posso dare, se per caso vi doveste svegliare in uno strano appartamento, in preda alle vertigini, con un’emicrania postsbronza saldamente installata nella testa, senza uno straccio addosso, senza il benché minimo ricordo di come siate finiti lì, mentre la polizia sta buttando giù la porta a mazzate con un sottofondo di latrati di cani infuriati, e vi ritrovate per di più circondati da mucchi di riviste patinate con foto di bambini intenti a compiere atti osceni decisamente da adulti, l’unico consiglio che posso dare, ripeto, è questo: cercate di comportarvi in maniera educata e di mostrarvi di buon umore» (la traduzione è di Riccardo Duranti). Ecco. La cosa che dico, di solito, ai seminari di scrittura, dopo aver letto questo inizio, e che ripeto anche ai lettori di questo giornale, che se siete capaci di scrivere un libro che cominci con un inizio che abbia la forza di questo inizio qua e che continui su questo andiamo, mi prendo io l’impegno di trovarvi, nel giro di un mese, un editore che ve lo pubblichi. Perché la cosa che quelli che stanno scrivendo un libro, e che non hanno nessun contatto con il mondo editoriale, non sanno, o se la sanno tendono a dimenticarla, è che in questo momento, in Italia, c’è un sacco di gente il cui lavoro consiste nel cercare delle cose belle da pubblicare. Tra cui anche la vostra, se ce l’avete.

[uscito ieri sulla Verità]

I buoni e i cattivi

sabato 14 Luglio 2018

Una delle cose più difficili, secondo me, per uno che scrive un romanzo, è descrivere un personaggio cattivo. Il cattivo, del libro, bisogna essere bravi, a farlo saltar fuori. Perché non puoi dire semplicemente che è cattivo, sarebbe troppo facile, devi farlo agire in un modo che sia poi il lettore, che vedendolo agire così pensi “Accidenti, com’è cattivo, questo”.
L’unica cosa forse più difficile, di descrivere un personaggio cattivo, è descrivere un personaggio buono. Anche lui, non puoi dire semplicemente che è buono, devi farlo agire in un modo che sia poi il lettore che pensi “Accidenti, com’è buono, questo”.
Mi viene in mente un esempio che ha a che fare con il giornalismo e con la religione.
Io, per un certo periodo, appena preso il diploma, prima ancora di fare l’università, tra l’ottantasette e l’ottantotto, ho lavorato in Iraq, a Baghdad, quando c’era al potere Saddam Hussein.
Una volta, qualche tempo fa, una signora che era stata in Iran, quando mi ha detto che lei era stata in Iran, e io le ho detto che per un po’ avevo vissuto in Iraq, lei m’aveva detto «Be’, in Iraq dev’essere un po’ pericoloso», e io le avevo detto «Ma no, allora c’era Saddam Hussein si stava bene». Dopo mi ero fermato avevo pensato «Ma cosa dici?».
Che il tempo fa delle cose stranissime, alla realtà, e io all’epoca non l’avrei mai detto, che si stava bene, in Iraq, che allora, quando ci abitavo io, in Iraq, 1987-1988, tutto il paese era coperto di gigantografie di Saddam Hussein ne parlavano tutti bene, se ne parlavi male c’era la pena di morte, in Iraq, che allora era alleato con l’occidente anche in occidente non ne parlavano male, di Saddam Hussein, è stato dopo.
Quando tipo quindici anni dopo l’occidente stava per scatenare la seconda tempesta nel deserto, come han chiamato la seconda missione di pace da cui poi è saltata fuori la guerra in Iraq, è stato allora che Saddam Hussein è diventato un nemico ed è stato il momento che in Italia era uscito un libro su Saddam Hussein che io, forse per il fatto che in Iraq ci avevo vissuto, l’avevo comprato e avevo cominciato anche a leggerlo.
Questo libro era stato scritto da un giornalista arabo che viveva in Italia e era una biografia molto dettagliata che cominciava fin dall’infanzia e diceva che la mamma di Saddam Hussein come mestiere faceva la puttana, e che lei suo figlio non l’avrebbe neanche voluto per quello l’aveva chiamato Saddam che significava Maledetto e effettivamente, diceva questo giornalista che poi avrebbe fatto carriera sarebbe diventato vicedirettore ad personam di un importante quotidiano italiano, e poi dopo si sarebbe anche convertito al cattolicesimo in mondovisione, questo giornalista scriveva che, effettivamente, con un nome del genere, Maledetto, era venuto poi fuori un bambino così cattivo che fin da piccolo quando andava alle elementari lui rubava le merendine ai suoi compagni di classe, e se i suoi compagni di classe se ne accorgevano e le rivolevano indietro lui le buttava per terra e poi le pestava coi piedi così non le poteva mangiare nessuno, diceva questo futuro vicedirettore ad personam convertendo in mondovisione che avrebbe poi anche fondato un movimento politico e che queste cose le scriveva in un libro pubblicato da un’importante, rispettata casa editrice italiana, che io mi ricordo che avevo pensato che non avrei mai detto, che si potessero pubblicare delle cose del genere, invece si potevano pubblicare, si vede.
Quando avevo letto quella cosa di Saddam Hussein e delle merendine, avevo finito l’università, avevo già cominciato a scriver dei libri, mi era venuta in mente una mia amica che, quando facevo l’università, aveva un fratello devoto a Sai Baba, e questo fratello, di quella mia amica, aveva insistito perché io vedessi un film sulla vita di Sai Baba.
Un documentario fatto da degli emiliani devoti a Sai Baba che erano stati là in India da Sai Baba per far capire agli emiliani che da Sai Baba non c’erano stati la realtà di Sai Baba per come la capivano loro, quella realtà lì.
Allora in questo documentario si diceva che Sai Baba, che per chi non lo sa era un santone indiano che aveva una pettinatura che sembrava uno dei Nuovi Angeli, cioè aveva una pettinatura da cantante pop–rock degli anni settanta, in questo documentario si diceva che Sai Baba, che la sua specialità era materializzare le cose, che i devoti di Sai Baba andavano là in India dove lavorava e si facevano vedere da lui e lui si faceva girar tra le mani un po’ di polvere e trac, ti materializzava quello di cui avevi bisogno: ti serviva una pietra della fortuna?, lui ti materializzava una pietra della fortuna, ti serviva la calma?, lui ti materializzava un amuleto che trasmetteva la calma, ti servivano dei soldi?, lui ti materializzava dei soldi, credo, non sono sicuro, insomma, quella lì di materializzare le cose era la sua caratteristica che lui, Sai Baba, fin da quando era piccolo, si diceva nel film, ne era dotato, tant’è vero che quando andava alle elementari materializzava le merendine per i suoi compagni di classe, si diceva nel documentario, ecco io, quando avevo poi letto l’inizio del libro su Saddam Hussein del futuro vicedirettore ad personam a me era venuto da immaginarmi la classe di Saddam, dopo che lui aveva rubato e calpestato le merendine dei suoi compagni di classe, mi era venuto da immaginarmi che passasse Sai Baba e ripristinasse la situazione iniziale, ognuno con la sua bella merendina, la giustizia divina, in un certo senso.
Ecco questi due casi, quello di Sai Baba e quello di Saddam Hussein, come son stati raccontati da quei fedeli e da quel giornalista, a me sembrano belli perché sono veri, non sono inventati, non sono frutto dell’immaginazione, perché se fossero frutto dell’immaginazione, quei due personaggi lì, un Sai Baba così buono e un Saddam così cattivo, sarebbero forse un po’ stucchevoli, un po’ prevedibili, dentro un romanzo.
Se queste due storie fossero dentro un romanzo, bisognerebbe che a Sai Baba ogni tanto gli venisse il nervoso e che Saddam ci fosse qualcuno a cui vuole bene, quella sarebbe una cosa interessante, da raccontare, forse. Un buono che sia minimamente anche un po’ cattivo, ogni tanto e un cattivo che ogni tanto abbia un’inspiegabile attrazione per i buoni sentimenti e le buone azioni.
E con questo finisce la penultima puntata di questa piccola serie, ne manca solo una, dove proveremo a dire cosa succede quando avete scritto un romanzo e dovete trovare qualcuno che ve lo pubblichi.

[uscito ieri sulla Verità]