Tutti gli anni le stesse cose

sabato 4 Gennaio 2014

Io ormai è un po’ di anni che alla fine dell’anno, quando c’è il discorso del Presidente della Repubblica, io mi illudo che possa cominciare così: «Care italiane, cari italiani, quando comprate un uccello, guardate se ci sono i denti o se non ci sono. Se ci sono i denti, non è un uccello». Che è una frase di uno scrittore russo che si chiama Daniil Charms e che rimanda a un mondo che nella sua incoerenza e nella sua irrazionalità a me sembra molto coerente e razionale e molto simile al mondo che trovo fuori dalle mie finestre. Invece poi tutti gli anni, e anche quest’anno, nel discorso del Presidente della Repubblica io trovo una lingua e delle espressioni che mi dicono, non so, che il senso della Nazione e delle istituzioni è naturale, che i dilemmi sono angosciosi, che la Nazione è stabile, economicamente e socialmente, che i giovani sono il futuro, e il presente, che la volontà è costruttiva, che il coraggio è dell’innovazione, che le eccellenze sono tecnologiche, che il nucleo è forte, e vincente, che il crimine è organizzato, e la persuasione è morale, e le campagne sono calunniose, e il 20 aprile è  scorso, e l’assunzione è di responsabilità, e la paralisi è allarmante, e istituzionale, e la volontà è costruttiva, e il bisogno acuto, e la rete di associazioni e di iniziative benefiche fitta. Ci trovo, insomma, un linguaggio che rimanda a un mondo coerente e razionale che nella sua coerenza e nella sua razionalità a me sembra molto incoerente e irrazionale e poco simile al mondo che trovo fuori dalle mie finestre. E tutti gli anni, quando sento il discorso del Presidente della Repubblica, questo discorso finisce con l’inizio dell’inno italiano, che si intitola, come è noto, Fratelli d’Italia, e a me tutti gli anni viene in mente che a me, quando ero piccolo, negli anni sessanta, e andavo a scuola, c’era il maestro di musica, col pianoforte, che mi faceva cantare Fratelli d’Italia. «Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte». Avevo sei anni. E tutti gli anni, dopo, mi viene in mente che poi, quando da grande stavo studiando per la tesi, e per scrivere la tesi ero finito in Russia, e avevo scoperto che i russi conoscevan benissimo la musica italiana, e gli piaceva cantare le canzoni italiane, e che c’eran delle canzoni, che in Italia io non avrei cantato neanche se mi pagavano, che in Russia ho cantato più volte, con piacere, dentro degli appartamenti minuscoli, in cucine strettissime, seduti su degli sgabelli intorno a un tavolo con sopra una bottiglia di vodka, un baton di pane nero, due cetrioli e tre pomodori, e una di quelle canzoni, la canzone italiana che ho cantato di più, in Russia, è stata Un italiano vero, di Toto Cutugno, e questa canzone, secondo me, quando sento l’inno nazionale, io questa canzone, che noi in Italia un po’ la snobbiamo, sentirla fuori dall’Italia io mi ero accorto che questa, per me, è la vera canzone che dovrebbe diventare l’inno nazionale, e a me piacerebbe moltissimo, penso tutti gli anni, vedere i giocatori della nazionale che, una mano sul cuore, al centro del campo cantano: «Buongiorno Italia gli spaghetti al dente, e un partigiano come presidente, con l’autoradio sempre nella mano destra e un canarino sopra la finestra». 
Chissà se succederà mai.

[uscito ieri su Libero]

Dieci panini

sabato 14 Settembre 2013

Tutti gli anni, a settembre, quando si tratta di ricominciare a lavorare, ho l’impressione di avere tante di quelle cose da fare che, quando ne comincio una, me ne viene subito in mente un’altra più urgente e smetto di fare la prima e non comincio la seconda, perché, in questo passaggio, me n’è venuta in mente una terza che mi ero dimenticato di dover fare e che mi sembra più urgente sia della prima che della seconda, e quando mi alzo per prendere i libri che mi servirebbero per lavorare alla terza me ne arriva una quarta e allora niente.
Mi ricordo una volta, a Milano, ero passato davanti a un locale che aveva un cartello, appeso in vetrina, che diceva qualcosa del tipo «Se mangiate nove panini il decimo ve lo regaliamo» e a me, mi ricordo, avevo pensato a quanti panini sarei riuscito a mangiare e mi era venuto in mente Maradona che dicevano che avesse mangiato undici pizze in una sera e avesse rischiato di morire.
Ecco io, a settembre, tutti gli anni, quando ricomincio, ho l’impressione che non riuscirò a mangiare neanche un panino, neanche una pizza, non riuscirò a fare niente e, siccome è un’impressione che ho tutti gli anni, dovrei esser contento, di averla, dovrei preoccuparmi se non l’avessi perché gli anni scorsi, quando l’ho avuta, alla fine poi sono riuscito a fare le cose che dovevo fare e a consegnare i lavori che mi ero impegnato a consegnare solo che, invece, tutti gli anni, io mi dico che gli anni scorsi, sì, alla fine poi ce l’ho fatta, ma ero più giovane, invece quest’anno, ho compiuto cinquant’anni (l’anno scorso quarantanove, l’anno prima quarantotto), «Cosa vuoi fare, alla tua età?» mi domando, poi mi dico che il mondo è pieno di gente che ha cinquant’anni, o quarantanove, o quarantotto e lavora benissimo, solo che io, non so come mai, mi sembra che questa cosa valga solo per me, però è evidente che il mio ragionamento è un ragionamento un po’ da minus habens, mi vien da pensar tutti gli anni, e quando arrivo a pensare che faccio dei ragionamenti da minus habens sono con le spalle al muro e, non so voi, ma io, quando sono con le spalle al muro, è la condizione ideale, per me, per lavorare.
Io, se non son con le spalle al muro, non c’è mica verso, che faccia qualcosa che ha un senso, e forse è anche per quello, che quest’anno, come tutti gli anni, in questi giorni, i primi di settembre, quando qualcuno mi chiede «Come stai?», io gli dico «Eh, non ho voglia di far niente», e glielo dico con un tono che son quasi contento, come se mi compiacessi, di non aver voglia di far niente, ma non è che mi compiaccia, è il fatto che so che tra un po’ sarò con le spalle al muro e io, quando son con le spalle al muro mi piace.

[uscito ieri su Libero]

Destinati a dominare

sabato 31 Agosto 2013

Siccome ascolto abbastanza spesso la radio, anche quando lavoro, qualche anno fa, quando c’era un presidente della Repubblica che si chiamava Scalfaro, Oscar Luigi, io mi ricordo che quando lo sentivo per radio, e succedeva abbastanza spesso, all’epoca della sua presidenza, io mi ricordo che dovevo smettere di lavorare e spegnere la radio perché aveva una voce, l’ex presidente Scalfaro, Oscar Luigi, che era insopportabile, per me. Non erano tanto le cose che diceva, le cose che diceva non riuscivo neanche ad ascoltarle perché aveva un tono, l’ex presidente Scalfaro, che non c’eravamo neanche lontanamente, come dicono a Parma; aveva un effetto, su di me, il tono dell’ex presidente Oscar Luigi Scalfaro, che io avevo pensato che se, per assurdo, Scalfaro avesse letto per radio una cosa che avevo scritto io, io non sarei stato d’accordo neanche con quello che avevo scritto io, letto da Scalfaro. E mai e poi mai avrei immaginato che nella mia vita ci sarebbe stato qualcuno con un tono che mi avrebbe fatto un effetto ancora più repellente del tono di Oscar Luigi Scalfaro, invece ho scoperto in questi giorni che c’è. Si chiama Laura Boldrini e fa la presidente della Camera. Se voi avete sentito il discorso di insediamento di Laura Boldrini, io ho provato a sentirlo su youtube in questi giorni, ecco il modo in cui la Boldrini calca sulle parole, a me, veramente, mi fa venire gli sgrisori, come dicono a Parma. Anche se, a pensarci, la mia reazione, rispetto a Scalfaro, è un po’ diversa, perché quando sentivo che Scalfaro diceva qualcosa, io, all’epoca, spegnevo la radio, oppure andavo via, oppure mi mettevo a cantare così non sentivo, e finiva sempre che non sapevo niente, di quel che aveva detto Scalfaro, finiva che le parole di Scalfaro mi erano arrivate solo come tono, come musica particolarmente sgradita invece, quando per esempio, in quel discorso di insediamento, la Boldrini dice: «Dovremo ingaggiare una battaglia vera contro la povertà» a me, devo dire, mi è venuto da pensare “Ma pensa, credevo che doveste ingaggiare una battaglia finta contro la ricchezza”. Cioè è più complicata, la mia relazione con la voce della Boldrini, non è così semplice e felice come la mia relazione con quella di Scalfaro, il che si potrebbe anche prendere come un conferma della teoria dell’entropia, se l’ho capita bene, che è quella teoria che credo dica che, in generale, la probabilità di uno stato è inversamente proporzionale al suo grado di organizzazione e di ordine, cioè che, in natura, è più probabile il disordine dell’ordine, e che più passa il tempo più è destinato a dominare il disordine, secondo me, se ho capito bene.

[Dovrebbe essere uscito ieri su Libero]

Di tutti

venerdì 27 Aprile 2012

Vedo che c’è una campagna, su twitter, per la cultura come bene comune. E a Parma, alle elezioni, c’è una lista che si chiama Parma bene comune. E tempo fa, quando ci son stati i referendum, uno degli slogan, se non ricordo male, era Acqua bene comune. Che è una cosa che io, sarò io, ma non la capisco. Non capisco in che senso, Parma, per esempio, o l’acqua, sarebbero dei beni comuni. C ‘è un mio amico, un anarchico di Modena che si chiama Colby, che una volta gli han chiesto cosa pensa dell’antiamericanismo e lui ha risposto che l’antiamericanismo non ha senso, perché l’America è di tutti. Ecco, questa cosa qua, io, la capisco. Il mare, lo capisco anch’io, è di tutti. La pioggia, lo capisco anch’io, è di tutti. E Parma, e l’America, e l’aria, e la cultura, lo capisco anch’io, son di tutti. Quello che non capisco è perché dovrebbero essere dei beni. Parma non è un bene, secondo me. Parma, secondo me, è un’idea, un accento, un modo di parlare, di imprecare, di gesticolare, è una cantilena, è un dialetto, è un modo di camminare, è un modo di accendersi le sigarette, è un modo di piegare la testa quando si guarda, è la luce che c’è sulla via Emilia a una cert’ora del giorno, è l’odore che c’è in Cittadella quando è piovuto, è il suono delle campane della Steccata che son tutte cose cose non si possono scrivere dentro un bilancio, beni mobili, beni immobili, ammortamenti, e mi viene in mente quella poesia di Brodskij, «I rintocchi del campanile / che ha messo radici nel cielo veneziano: / frutti che cadono senza toccare / il suolo. Se esiste un’altra vita / lì qualcuno si occupa della raccolta di queste cose», scrive Brodskij, e mi vien da dire che è vero, se esiste un’altra vita, son quelle, le cose da raccogliere, ma in questa vita, mettere a bilancio queste cose è un po’ difficile, secondo me, non sarebbe meglio dire che Parma, per esempio, è di tutti? Che l’acqua, è di tutti? Che la cultura, è di tutti? Non si capirebbe meglio? Non sarebbe più bello, più comprensibile, più sensato?

[uscito oggi su Libero]