Muovere i piedi

lunedì 9 Febbraio 2015

– C’è una sezione del tuo sito, e anche un tuo libro, che si chiama “Pubblici discorsi”, un luogo dove stanno tutte le cose che vuoi dire e hai detto ad alta voce. Una volta, parafrasando Buffon, hai detto che la vita privata è privata, sennò sarebbe pubblica. Su questo confine fra il privato e il pubblico sembra si muova tanto di quello che scrivi, qualcosa che affonda da una parte e si slancia dall’altra. Scrivere un romanzo “pseudo-autobiografico” può significare questo? O meglio, cosa significa per te?

Credo che tutti i romanzi che ho scritto siano così, pseudo-atuobiografici, cioè romanzi nei quali il lettore può confondere l’io narrante che c’è nel romanzo con l’autore. Questa è una cosa che a me, come lettore, è successa per esempio con Fante, con Bukowski, con Bernhard, con Hasmun, con Vonnegut, con Dovlatov, con Erofeev e con Svevo, per dire.
Questo non vuol dire che io creda di conoscere la vita privata di Fante, di Bukowski, di Bernhard e degli altri, e non vuol dire nemmeno che, se fossero ancora vivi, cercherei di conoscerli personalmente, vuol dire che quando ho finito di leggere Il soccombente, di Bernhard, per esempio, alla fine mi sono chiesto se Bernhard Glenn Gould l’aveva conosciuto davvero, e questo dubbio era un dubbio che mi piaceva e è stato bello, chiudere il libro cullato da questo dubbio che è un dubbio che, sono passati quindici anni, non ho mai cercato di soddisfare.

– Dici spesso che non ti convincono i personaggi che hanno successo o i grandi accadimenti, ma che piuttosto ti piace la normalità, i momenti in cui non succede nulla, i personaggi a cui non succede nulla, stando ai margini e delle volte anche “più in basso”. Perché è bello raccontare questo niente e questo basso?

Credo che se dovessi andare a cena con un self-made man o con un fallito, con uno che è stato proprio sul bollettino dei protesti, che non ha più un nome, se così si può dire, credo che le storie che mi racconterebbe il fallito sarebbero molto più interessanti, di quelle che mi racconterebbe il self-made man che vorrebbe probabilmente insegnarmi a stare al mondo.
Per i personaggi, mi viene in mente quel che sembra dicesse Turgenev, che sembra dicesse che l’uomo russo è buono soprattutto per il fatto di aver di se stesso una pessima opinione; per le storie, quel che dice Peter Bichsel quando dice che le storie d’avventura, rapide e appassionati, hanno un doppio svantaggio, fanno pensare che si possono raccontare solo storie appassionanti e insinuano nel lettore l’idea che la vita, senza qualcosa di straordinario, sia priva di senso. Sono però d’accordo con Bicshel quando dice che questo non significa che non si possano raccontare storie d’avventura con protagonisti straordinari (sto leggendo Il Morgante di Pulci, il cui protagonista è un gigante con una forza eccezionale, e mi sembra un libro bellissimo).

– Nei “non accadimenti” raccontati nei tuoi libri si crea spesso lo spazio per guardare le cose con maggiore attenzione, come fosse la prima volta. Questo modo di guardare le cose sembra privato, personale, quanto lo sono le cose guardate. Raccontarlo è forse il gesto più sincero, e il contenuto più autobiografico cui si possa arrivare?

Non so tanto, del mio modo di guardare, e quel che so preferisco fare finta di non saperlo: cerco di scrivere senza sapere come faccio.
Viktor Šklovksij ha raccontato una variante della storia del millepiedi, che dice che c’era un millepiedi e aveva esattamente mille piedi o giù di lì; correva svelto, e la tartaruga l’invidiava, e gli aveva detto: «Come sei saggio! Come fai a indovinarle tutte, e come fa a avere tanta cognizione da sapere la posizione che deve occupare il tuo novecentosettantottesimo piede quando porti avanti il quinto?».
Il millepiedi subito era contento ma poi aveva cominciato davvero a chiedersi dove si trovasse ogni suo piede, aveva messo su un ufficio per risolvere la questione, una cancelleria, la burocrazia, e era finita che dei piedi non poteva più muoverne neanche uno. Continua a leggere »