L’offesa del fazzoletto

giovedì 29 Gennaio 2015

Viktor Šklovskij, C'era una volta

Nell’infanzia i giorni sono pieni di novità, lunghi per i dispiaceri.
Anche adesso ricordo l’offesa di quando ti pulivano il naso col ruvido fazzoletto, forte e con cura.
Era un’offesa grande.

[Viktor Šklovskij, C’era una volta, traduzione di Sergio Leone, Milano, il Saggiatore 1968, pp. 19.20]

Kul’bin

sabato 23 Luglio 2011

Nikolai Ivanovič mi diceva: l’uomo per la struttura dei labirinti delle orecchie è adatto a camminare su una corda e a fare su una corda tutto quello che fa a terra, ma di questo non è informato, bisogna renderlo edotto, spesso è utile dire ad un uomo che è un genio perché gli passi la paura, la sfiducia in se stesso.

[Viktor Šklovskij, C’era una volta, cit., p. 132-133]

Šklovskij

giovedì 30 Giugno 2011

Spendiamo poco tempo uno per l’altro. Non abbiamo tempo.
Io non so dove spendiamo il tempo.

[Viktor Šklovskij, C’era una volta, cit., p. 244]

Šklovskij

lunedì 27 Giugno 2011

Questa città non divenne provincia, non fu presa, perché fondeva col suo calore, accendeva del suo fuoco tutti coloro che vi andavano contro.
La patata, la carota, che si portavano come fiori, i versi e il domani erano sacri.
Salute a voi, amici, con i quali scrivevo, con i quali pativo la fame, con i quali sbagliavo.

[Viktor Šklovskij, C’era una volta, cit., p. 223]

Su una questione contemporanea

sabato 21 Maggio 2011

Noi si riscaldava con tutto; bruciai scaffali, il telaio d’una scultura e libri, senza numero e senza misura.
Borìs Ejchenbaum si procurò una stufa da trincea, sedeva davanti ad essa, rivedeva le riviste; vi strappava le cose più importanti, il resto lo bruciava. Non poteva bruciare i libri senza averli letti.
Io bruciavo tutto. Se avessi avuto mani e piedi di legno avrei bruciato anche loro in quell’anno.
Le piccole case di legno venivano divorate dalle grandi case di pietra. Comparvero rovine artificiali. Il gelo azzannava le pareti delle case, ghiacciandole sino alle tappezzerie; la gente dormiva vestita. Se ne stavano nelle camere con i cappotti abbottonati.
Tutti avevano lo stesso destino, tutto a periodi fu provato. Ci fu il mese dei cavalli che cadevano, quando ogni giorno in ogni via erano stesi cavalli morenti.
Ci fu il mese della saccarina, quando in tutti i negozi si vendevano solo pacchetti di saccarina. Ci furono i mesi quando si mangiava la buccia delle patate, e d’autunno, durante l’offensiva di Judenič, tutti mangiavano cavoli.
I cavalli morivano. Non dimenticherò lo scricchiolio e l’angoscia dei pattini delle slitte che ti trascinavi dietro. La grande città viveva per il cuore dei suoi abitanti, essa non si spense, come non si può spegnere sotto la pioggia e la neve un mucchio di carbone acceso.
Dagli appartamenti bui, dove le lucerne mandavano una fioca luce, si raccoglievano nei teatri, guardavano lo spettacolo, mettevano in scena nuove opere. Gli scrittori scrivevano, gli scienziati lavoravano.
I giovani critici letterari si riunivano negli appartamenti. Una volta ci toccò salire sulle sedie, perché il pavimento al primo piano era stato inondato dall’acqua di una conduttura che era scoppiata.

[Viktor Šklovskij, C’era una volta, cit., pp. 222-223]

A questo punto

lunedì 9 Maggio 2011

A questo punto devo arrestarmi, o meglio, devo chiarire i miei dubbi: perché ciò che gli artisti russi di sinistra hanno scoperto cinquanta anni fa, adesso è quasi diventata l’arte ufficiale d’America.
/…/
Ogni epoca ha il suo senso.
In Russia molti teorici del primo quarto di questo secolo cercarono di passare dall’astratto al concreto, dalla lingua transmentale alla teoria del soggetto, alla storia, all’intelligenza del significato, fino ad assoggettare al significato tutti gli elementi costitutivi dell’opera.
Ora invece ci si sforza d’allontanarsi dal fatto più importante dell’arte, dalla conoscenza del mondo, che dell’arte è la linfa vitale. E tutti i segni diventano incomprensibili se non fanno da semaforo alla vita dell’uomo nell’universo.
L’arte astratta dopo cinquanta anni, dopo la rivoluzione d’Ottobre, dopo il crollo del colonialismo, dopo i voli cosmici, e mentre si svolgono le consultazioni per il disarmo, rappresenta in generale l’uscita dal figurativismo, dall’esercizio semantico.
È interessante notare che i rotocalchi americani a colori sono semplicemente variopinti. Gli editori, quando stampano i quadri (lo si avverte molto nelle riproduzioni dei vecchi maestri) non rettificano i colori, li danno nell’irragionevole miscuglio di un cartellone pubblicitario. Lo stesso si può dire anche delle scatolette di conserva di cui tutti si nutrono. Brillano e odorano di lacca, e ciò che doveva essere arte s’è sfaldato nei ricordi dell’astrattismo. Ciò che era strada, ricerca, ciò per cui si faceva la fame, si è trasformato in una moda e nelle mistura di colori di una cravatta.

[Viktor Šklovksij, C’era una volta, cit., pp. 168, 169]

Un’orma bagnata di forma rotonda

giovedì 24 Febbraio 2011

Portavamo giacchette di fustagno, grigie, con l’elastico fatto passare di sotto. Sotto l’elastico il fazzoletto da naso: i calzoncini corti erano senza tasche. Pantaloncini di panno.
La parola «camicetta» è offensiva, non è maschile.
Non la si dimentica. Le offese d’infanzia non sono una scheggia sotto l’unghia: restano.
Nell’infanzia i giorni sono pieni di novità, lunghi per i dispiaceri.
Anche adesso ricordo l’offesa di quando ti pulivano il naso con il ruvido fazzoletto, forte e con cura.
Era un’offesa grande.
Qualche volta andavamo all’isola Vasil’evskij: vi abitava lo zio Anatolij, specialista di vini. Viveva in una casa di legno, sua moglie aveva uno specchio a tre portelle, sulla cui mensola c’era un piccolo salvadanaio rosa, un maiale; per me esso si trovava all’estremo limite del mondo.
A casa Nastas’ja Fëdorovna ci raccontava cose alle quali noi si credeva senza discutere; per esempio, che se si calpestava un’orma bagnata di forma rotonda lasciata da un secchio, sul viso comparivano dei cerchi. Anche adesso non metto mai il piede su una di queste impronte.
[Viktor Šklovskij, C’era una volta, traduzione di Sergio Leone, Milano, Il saggiatore 1968, pp. 19-20]